Sembra una brutta barzelletta. Il 50 per cento degli italiani vota per un paese aperto, aperto alle minoranze, aperto verso l’Europa e il mondo. Vota liste che rispettano i diritti lgbt+ e li vogliono rafforzare, che non reagiscono in maniera ostile alle migrazioni ma vogliono concedere la cittadinanza ai figli degli immigrati cresciuti in Italia, che vogliono vedere l’Italia solidamente ancorata in Europa e puntano al rafforzamento dell’Unione europea.
L’altro campo deve invece accontentarsi del 44 per cento: il campo in cui dominano due partiti della destra populista con la loro agenda reazionaria che non prevede spazi per le minoranze, per i rifugiati e i migranti presentati come minaccia e basta, per un’Europa sempre più integrata, in cui non c’è neanche spazio per una risposta decisa alla crisi climatica. Contano solo i due imperativi “dio, patria, famiglia” e “prima gli italiani!”.
Ma – e qui arriviamo alla barzelletta brutta – quella minoranza – fin troppo forte ma sempre minoranza – ora comanderà in Italia grazie al fatto che potrà contare su una larga maggioranza di circa il 60 per cento dei seggi in parlamento. Avrà il governo e vedremo con tutta probabilità Giorgia Meloni come presidente del consiglio: quella Giorgia Meloni che non ha mai fatto un taglio netto con il passato del fascismo, che vede il 25 aprile non come festa della liberazione da nazisti e fascisti ma come “festa divisiva”.
Senza un piano alternativo
È un disastro di cui le forze del centrosinistra portano la responsabilità, un disastro inoltre perfettamente prevedibile, potremmo anche dire: un suicidio politico collettivo commesso a occhi aperti. Di solito solo il successo ha molti padri, ma in questo caso dobbiamo dire che l’insuccesso ha una paternità plurima. Bastava uno sguardo alla legge elettorale: un campo diviso non ha nessuna chance se l’altro campo si presenta unito.
E dire che il Partito democratico (Pd) fin dal 2019 puntava alla creazione del “campo largo” di tutti i partiti contrapposti alla destra populista. Ma quando il Movimento 5 stelle (M5s) si è sganciato dal governo di Mario Draghi, il segretario del Pd Enrico Letta ha seppellito il campo largo da un giorno all’altro. Gli mancava però un piano alternativo e il suo tentativo di trasformare le elezioni, con lo slogan “o noi o loro”, in un duello tra lui e Meloni, tra il Pd e Fratelli d’Italia, è fallito miseramente. Con il 19 per cento il Pd ha portato a casa un risultato misero, sostanzialmente uguale al disastro renziano del 2018.
Avevano invece un piano b Giuseppe Conte e i cinquestelle: fermare il declino definitivo dell’M5s, “primum vivere” come disse nel lontano 1976 Bettino Craxi riferendosi al Partito socialista. Con un inatteso 15 per cento quel calcolo è stato coronato dal successo, un successo che è costato il prezzo di spianare la strada al trionfo della destra.
Avevano un piano b anche Matteo Renzi e Carlo Calenda con il loro “terzo polo” di ispirazione macroniana. Sognavano di distruggere i cinquestelle e di indebolire il Pd, sognavano di diventare l’ago della bilancia in un parlamento privo di maggioranze solide e di riportare Mario Draghi a palazzo Chigi. Questo progetto è naufragato miseramente; non ci volevano conoscenze di alta matematica per capire quanto fosse lontano dalla realtà.
Il danno non colpisce solo il campo del centrosinistra, ma l’Italia, almeno quell’Italia aperta al mondo che può contare sulla maggioranza dei cittadini. Loro dovranno fare i conti con un governo reazionario che non guarda al futuro ma a un passato immaginario. E anche l’Europa deve prepararsi al fatto che nei prossimi anni l’Italia non sarà più un motore dell’integrazione. Non a caso i primi telegrammi per Meloni erano firmati dall’ungherese Viktor Orbán, dalla Alternative für Deutschland tedesca, dalla francese Marine Le Pen e dagli spagnoli di Vox.
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