La vittoria elettorale di Hamas è una brutta notizia ma era purtroppo prevedibile alla luce degli eventi dell’ultimo periodo. È giusto definire Hamas un movimento estremista e violento, e una seria minaccia alla pace. È bene però ricordare che sotto molti aspetti non ha posizioni più estreme di altri protagonisti del conflitto.

Per esempio, Hamas ha dichiarato che accetterebbe una tregua se i confini tra Israele e Palestina fossero quelli, internazionalmente riconosciuti, di prima del 1967. Ma quest’idea è respinta da Stati Uniti e Israele, che continuano a sostenere che ogni eventuale soluzione politica dovrà comprendere l’annessione israeliana di gran parte della Cisgiordania (e delle alture del Golan, ormai dimenticate).

Hamas ha vinto le elezioni unendo un’attiva resistenza all’occupazione militare a un capillare lavoro di organizzazione della società e di servizi ai poveri: un programma che avrebbe conquistato consensi ovunque. Invece per l’amministrazione Bush questa vittoria costituisce l’ennesimo ostacolo alla propria politica, ufficialmente definita “promozione della democrazia” ma che in realtà intralcia le istituzioni democratiche. La posizione statunitense sulle elezioni palestinesi è in continuità con il passato.

Il voto è stato tenuto in sospeso fino alla morte di Yasser Arafat, salutata come un’opportunità per attuare l’idea di stato palestinese democratico cara a Bush, la quale non è che un pallido riflesso della soluzione attorno a cui esiste un consenso internazionale, cioè quella dei due stati, a cui Washington si oppone da trent’anni.

In un commento pubblicato dal New York Times subito dopo la scomparsa di Arafat e intitolato Speriamo che l’icona palestinese sia sostituita dalla democrazia, Steven Erlanger scriveva: “L’era del dopo-Arafat sarà il banco di prova del dogma americano per eccellenza: le elezioni legittimano anche le istituzioni più fragili”. E per concludere osservava: “Dal punto di vista dei palestinesi si tratta di un incredibile paradosso. In passato, l’amministrazione Bush si è opposta a indire nuove elezioni nei Territori palestinesi, sostenendo che avrebbero rilegittimato Arafat, rinnovandogli il mandato, e rischiato di contribuire a dare credibilità e autorevolezza a Hamas”. In breve, il “dogma per eccellenza” degli Usa è che le elezioni vanno benissimo, purché il risultato sia quello che vogliono loro.

A questo problema se n’è affiancato di recente un altro analogo: in Iraq la resistenza non violenta di massa ha costretto Washington e Londra a concedere le elezioni che avevano cercato in ogni modo di impedire. Poi è fallito anche il loro tentativo di sovvertire l’esito delle consultazioni, accordando dei vantaggi sostanziali al candidato preferito dell’amministrazione americana e condizionando la stampa indipendente.

Anche in Palestina Washington ha fatto ricorso alle tecniche standard di sovversione. Come ha raccontato il Washington Post il mese scorso, l’Usaid – l’ente del governo americano responsabile degli aiuti allo sviluppo – ha svolto il ruolo di “agente occulto” nel tentativo di “rafforzare la popolarità dell’Autorità Nazionale Palestinese alla vigilia di una consultazione decisiva, in cui il partito al governo è seriamente sfidato dal movimento islamico radicale Hamas”.

Come ha scritto il New York Times, “gli Usa hanno speso circa un milione e 900mila dollari – dei 400 milioni di aiuti che versano ogni anno ai palestinesi – per finanziare dozzine di progetti realizzati nell’ultima settimana. Questo per rafforzare agli occhi degli elettori l’immagine della formazione al governo, cioè Al Fatah, e aiutarla nella competizione elettorale contro il gruppo estremista Hamas”.

Come al solito, il consolato statunitense a Gerusalemme est ha assicurato che quest’aiuto mirava a “potenziare le istituzioni democratiche e ad appoggiare tutti i contendenti democratici, non solo Al Fatah”. Ora, negli Stati Uniti o in qualsiasi paese occidentale, anche il più vago sospetto di un’interferenza del genere da parte di una potenza straniera distruggerebbe qualsiasi candidato. Nel resto del mondo, invece, una mentalità imperiale profondamente radicata legittima le solite manovre di sovversione del voto democratico.

Ma ancora una volta il tentativo è stato un clamoroso fiasco. Adesso il governo statunitense e quello israeliano devono accettare di trattare con un partito islamico radicale che ha un atteggiamento simile al loro sul rifiuto delle soluzioni accettate dalla comunità internazionale.

L’obiettivo programmatico che Hamas ha espresso, quello di “distruggere Israele”, colloca questo movimento sullo stesso piano degli Stati Uniti e di Israele, che si sono detti contrari alla nascita di “un altro stato palestinese” (oltre alla Giordania, s’intende) finché Hamas non ammorbidirà la posizione di rifiuto che ha tenuto in questi ultimi anni. E non accetterà la creazione di uno “staterello” messo insieme con i frammenti che resteranno dopo che Israele si sarà impadronito di tutti i territori palestinesi che desidera.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 629, 16 febbraio 2006*

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it