Una delle cose strane di Scientology è il suo uso della lingua. Qualche tempo fa, è trapelata sul web l’intervista all’attrice Laura Prepon pubblicata su una delle riviste di Scientology, ma in fondo potevamo anche non leggerla, dato che è incomprensibile.
Prepon sostiene di aver seguito un “programma di purificazione”, di aver eliminato le “emozioni errate” e “perseguito obiettivi”, e spiega quanto è più facile vivere “quando prendi veramente coscienza di essere una Thetan”. Altri adepti parlano di “enturbulation” (inturbulazione), “alter-isness” (alterazione della realtà) e “randomity” (casualità), come se la loro religione fosse stata concepita da uno scrittore di fantascienza che ci prende tutti in giro.
Una lingua per adepti aiuta le organizzazioni come Scientology a mantenere il controllo sui loro seguaci: quando all’esterno nessuno capisce di che cosa stai parlando, sei fortemente incentivato a parlare solo con la tua cerchia ristretta (un’altra casta di eletti che usa un linguaggio specialistico per mantenere il suo potere è quella degli accademici).
Ma lo scientologhese non è un semplice gergo. Colpisce in modo particolare per il fatto che si basa su nomi inventati. Il “nomismo”, come lo chiama il sociologo Jeremy Sherman, riecheggiando Wittgenstein, è un modo di “dare concretezza alle cose”. I nomi esprimono certezza, indicano quello che è possibile capire e toccare con mano.
Forse non metterete mai piede in una sede di Scientology, ma questo non significa che siate immuni dal “nomismo”
È facile comprendere il fascino che questo esercita sulla base di Scientology, costituita da persone disorientate e alla disperata ricerca di sicurezze. Quanto è rassicurante pensare che la causa dei nostri problemi non siano i rapporti umani, con tutta la loro caotica imprevedibilità, ma una semplice inturbulazione, più un paio di emozioni errate che si possono eliminare con un programma!
Forse non metterete mai piede in una sede di Scientology, ma questo non significa che siate immuni dal “nomismo”. Nessuno di noi lo è, tutti distorciamo la nostra visione del mondo attribuendo a certe cose una realtà aggiunta che non meritano (in gergo si chiama reificazione).
Nel suo libro Learn to write badly, Michael Billig dimostra che il nomismo fa sembrare le cose prestabilite, inevitabili, al di là del controllo umano. La “globalizzazione” sembra essere un’entità con la quale faremmo meglio a imparare a convivere, piuttosto che un aggregato di innumerevoli decisioni umane; la “depressione” sembra un tedioso accumulo di momenti bui, piuttosto che un modo di vedere le cose e di relazionarsi con il mondo.
Allo stesso modo, molti giornalisti di sinistra sembrano pensare che i “privilegi” siano qualcosa che alcune persone hanno, come l’acne o i capelli ricci, piuttosto che un modo di descrivere il rapporto tra due o più individui. E il “nomismo” ci permette anche di cavarcela con spiegazioni pigre del tipo “la religione provoca il terrorismo”. Come può una serie di idee – quelle che sono alla base di una religione – avere questo magico potere causale indipendentemente dagli esseri umani? Il nomismo sposta l’accento dalle persone alle cose, dai processi alle situazioni statiche, dalla speranza alla rassegnazione.
Anche noi giornalisti dobbiamo assumerci qualche colpa, dato che i nomi, soprattutto quelli brevi, sono da tempo considerati il modo migliore per condensare informazioni nello spazio limitato di un titolo (se la madre di un bambino malato convince le autorità sanitarie a finanziare un’operazione sperimentale, probabilmente sul giornale locale leggerete “Mamma felice per operazione bimbo”). Non è che i nomi siano sbagliati in sé, ma la vita vera è fatta di verbi. Qualsiasi forma di linguaggio che fissi la realtà non riuscirà mai a cogliere il fatto che la vita è una serie continua di incertezze e di cambiamenti. E questo è piuttosto inturbulante.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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