1. Prince, Breakfast can wait
Nel 1987 si faceva colazione con Starfish and coffee, e ci si animava con The ballad of Dorothy Parker, senza sentirsi obbligati a conoscere le firme storiche del New Yorker: ma Sign o’ the times era fondamentale. Ora il tipetto di Minneapolis è anni che rigira sempre gli stessi pancake nel suo padellino di ballate fritte. Eppure questo nuovo singolo col piano elettrico fa simpatia e, anche se alla fine si perde con una vocina tipo Pierpaolo degli Squallor, per un po’ lo zio con la sua nuova band femminile, 3rdeyegirl, ci convince che era sempre meglio lui di Pharrell.
2. Mauro Ottolini & Frank Lacy, The minor thing
Trombonista sousafonista polipremiato jazzaro italiano incontra navigato trombettista cantante navigatissimo americano, la cosa finisce con jam session in cucina, un album (Heaven sent) prima allegato a una rivista per adepti e poi rilasciato al mondo intero (dall’etichetta Artesuono), vista la sua qualità acchiappona un po’ funerale a New Orleans, un po’ seduta spiritica a evocare James Brown. Ma quanto son bravi questi fissati della negritudine con quel suono pigro e cool che aiuta a ripulire i drink e a fare all’amore.
3. Momo Said, Met on phone
Ecco un altro per la nazionale cantanti ai tempi di Cécile Kyenge (bella voce pure lei, coi suoi sibilati francofoni): nato a Casablanca e cresciuto in Romagna, ricciolissimo allampanato e ipernutrito di buona musica, a volte busker a volte aspirante sanremasco, finalmente debuttante solista con un album, Spirit, che lo posiziona nell’area che va da Keziah Jones a Ben Harper, black acoustic soul. Forse dovrebbe attingere al suo naturale meticciato linguistico, ma si ascolta con gusto, è un talento fresco che si spera di vedere ben coltivato.
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