C’è un paradosso storico enorme nella commemorazione del massacro di Tianamnen, di cui ricorre il trentesimo anniversario. Giustamente tutti gli osservatori sottolineano che si tratta di un ricordo vietato in Cina, come dimostra il fatto che oggi il bilancio della repressione è incerto. Alcuni parlano di 300 vittime, altri di 2.500.

Eppure nessuno riesce a spiegare in che modo questo regime, lo stesso che secondo l’ex presidente francese François Mitterrand non aveva “nessun futuro” dopo aver sparato sui suoi giovani, ha potuto non solo sopravvivere ma diventare la seconda potenza economica mondiale sfidando il dominio degli Stati Uniti. Tra l’altro la Cina è riuscita in questa impresa senza fare un passo indietro sulla natura autoritaria del regime, imponendo addirittura un giro di vite dopo che l’attuale numero uno, Xi Jinping, ha assunto il comando del Partito comunista, nel 2012.

L’argomento è di grande attualità nel momento in cui la Cina ricopre un ruolo di primo piano sulla scena internazionale e partecipa ai nuovi rapporti di forza che modelleranno i prossimi anni.

La contropartita per un miglioramento del tenore di vita è stata l’abbandono di qualsiasi rivendicazione politica

La spiegazione di questo fenomeno è, a mio avviso, doppia. Da un lato c’è il “contratto sociale” proposto dal patriarca del partito Deng Xiaoping con lo slogan “arricchitevi!”. La contropartita per questo miglioramento del tenore di vita è stata l’abbandono di qualsiasi rivendicazione politica, con la rinuncia alla richiesta di libertà e democrazia della primavera di Pechino.

La Cina vive ancora di questo “contratto”. La promessa del potere è stata mantenuta: centinaia di milioni di cinesi sono usciti dalla povertà entrando a far parte di una classe media urbana diventata la base sociale del nuovo potere. Il prezzo da pagare è stato salatissimo, ma finché la crescita si mantiene costante il regime conserva la propria legittimità. Da un punto di vista democratico questo sviluppo rappresenta un problema, ma è comunque efficace.

L’altra chiave risiede nel nazionalismo, diventato ormai il carburante essenziale del mix ideologico post maoista. La grandezza della Cina, soprattutto ora che il paese subisce la pressione di Donald Trump, vale qualsiasi sacrificio. Soprattutto considerando che è stato concretizzato un doppio patto, di crescita e di potenza.

Tiananmen, da questo punto di vista, è un fantasma che ricorda ai cinesi che un’altra via era possibile, non quella dell’occidente ma quella dell’ala riformista del partito e della società, che per un momento si era identificata con la protesta degli studenti.

Questa via alternativa ha un nome, quello di Michail Gorbačëv, ultimo leader comunista sovietico colpevole di aver liberalizzato la Russia e portato il suo partito alla disfatta. Nessuno, a Pechino, vuole essere il “ Gorbačëv cinese”.

Da un lato la rigidità ideologica e di sicurezza, dall’altro il successo economico: l’alchimia cinese è senza equivalenti nella storia e passa attraverso il controllo assoluto sulla memoria, sull’informazione e sulle emozioni collettive. Questa è la forza (ma anche la fragilità) di un sistema fondato non sull’adesione ma sulla riscrittura permanente della storia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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