Il 27 ottobre Donald Trump ha annunciato trionfalmente l’eliminazione di Abubakr al Baghdadi, l’uomo che nel 2014 aveva proclamato la nascita del califfato del gruppo Stato islamico (Is). La notizia alimenta una serie di interrogativi. Affrontiamone tre.

Il primo riguarda l’incoerenza tra questa operazione, minuziosamente preparata ed eseguita dai commando statunitensi, e il caos delle decisioni prese nelle ultime settimane da Trump a proposito del nord della Siria. Se la morte del capo dell’Is era un obiettivo così importante, perché gli Stati Uniti hanno deciso proprio ora di colpire alle spalle gli alleati curdi per soddisfare le ambizioni della Turchia?

Il 27 ottobre Trump ha ammesso che i curdi hanno ricoperto un ruolo importante nella raccolta di informazioni che ha permesso la riuscita dell’operazione. Sono gli stessi curdi che il presidente ha tradito con la massima disinvoltura pochi giorni fa.

Inoltre fonti statunitensi ribadiscono che l’operazione è stata preparata malgrado le decisioni del presidente, non certo grazie a esse. Donald Trump ha ottenuto una vittoria che sicuramente sfrutterà nella sua campagna elettorale, ma un esame più attento conferma l’imprevedibilità delle sue decisioni.

Il ruolo della Turchia
Il secondo dubbio riguarda le conseguenze dell’operazione nella regione. La Turchia non ha preso bene il fatto che il Pentagono abbia riconosciuto il contributo dei curdi siriani nella preparazione dell’operazione.

La faccenda è tanto più delicata se consideriamo che Al Baghdadi si nascondeva in un’enclave siriana ribelle dove l’esercito turco è molto presente, insieme ai gruppi islamici controllati da Ankara.

Anche per questo gli analisti statunitensi paragonano la situazione attuale ai rapporti ambigui tra Osama bin Laden e i servizi segreti pachistani, ovvero il motivo per cui Washington non aveva avvertito il Pakistan prima del raid contro il capo di Al Qaeda. Questa dimostrazione di sfiducia, inevitabilmente, lascerà tracce nei rapporti tra la Casa Bianca e il governo turco.

La storia recente consiglia prudenza prima di dichiarare la fine dei jihadisti

La mappa regionale è ulteriormente complicata dal fatto che la ritirata delle truppe statunitensi alla fine non ci sarà, perché il Pentagono è riuscito a convincere il presidente a mantenere un contingente in Siria. La decisione ha ancora più senso considerando che i seguaci di Al Baghdadi potrebbero tentare di vendicarne la morte.

L’ultimo interrogativo riguarda il futuro del gruppo Stato islamico dopo l’uscita di scena del suo capo. Dopo aver perso i territori che controllava in Iraq e Siria, l’organizzazione ora si ritrova anche priva della sua guida. Ma la storia recente consiglia prudenza prima di dichiarare la fine dei jihadisti. Al Qaeda, infatti, non è scomparsa dopo aver perduto il suo leader, e al contrario ha partorito l’Is.

Le metastasi del jihadismo non sono ancora sotto controllo. Basta vedere come il gruppo ha saputo risorgere in Sri Lanka o in Sahel, o come può ancora motivare un singolo individuo a compiere un attentato in qualsiasi parte del mondo.

Oggi il jihadismo radicale e la rivoluzione laica e pacifica in Libano mostrano i due estremi di un mondo arabo sempre alla ricerca di un modello politico. I paladini dell’islam radicale non hanno ancora detto l’ultima parola.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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