Dopo diverse settimane in cui il virus sembrava aver anestetizzato le proteste in tutto il mondo, è tornato il tempo delle manifestazioni. Il 2019 era stato l’anno dei grandi movimenti di rivolta, dal Cile a Hong Kong passando per l’Algeria e il Libano. Disuguaglianze sociali, democrazia, diritto di cittadinanza. Le rivendicazioni erano vaste e apparentemente destinate a durare nel tempo. Poi però è esplosa la minaccia del virus e le proteste si sono progressivamente spente, sia a causa dei divieti di assembramento sia per la paura del contagio.

La pandemia continua a imperversare, ma negli ultimi giorni assistiamo a una ripresa delle manifestazioni, in alcuni casi nel rispetto del distanziamento sociale, in altri molto meno.

Il 24 aprile, per la prima volta dopo tre mesi, diverse centinaia di giovani di Hong Kong hanno manifestato all’interno di un centro commerciale. Paradosso dovuto alla pandemia, tutti indossavano una mascherina (compresi i poliziotti accorsi sul luogo) quando l’anno scorso il governo le aveva vietate per poter identificare i manifestanti più violenti.

I giovani di Hong Kong avevano tutte le ragioni per riprendere la loro rivolta. Qualche giorno prima, infatti, la polizia aveva arrestato numerosi esponenti dell’opposizione democratica, tra i quali un celebre avvocato di 84 anni, Martin Lee, e il proprietario di un giornale, Jimmy Lai. Nel frattempo Pechino continua a fare pressione sul governo locale affinché adotti nuove riforme sulla sicurezza, violando gli accordi che prevedevano mezzo secolo di autonomia per la città.

In tutte queste situazioni la pandemia fa da sfondo e rappresenta sicuramente un fattore aggravante

La pandemia, inevitabilmente, ha cambiato le proteste. A Hong Kong i manifestanti erano sparsi per i piani del centro commerciale e mantenevano una certa distanza, dando voce, con i loro slogan e il loro inno, alla gloria della città.

Il distanziamento è stato invece ignorato a Beirut, dove le proteste, interrotte a causa dell’isolamento, sono tornate in questi ultimi giorni con l’aggravante della crisi economica e finanziaria che sta stravolgendo il paese. Il 27 aprile alcuni manifestanti hanno bloccato la viabilità, scontrandosi con le forze dell’ordine. Nei prossimi giorni sono previste altre iniziative. In Libano, evidentemente, la preoccupazione per il virus passa in secondo piano di fronte alla minaccia del tracollo economico.

A Hong Kong e in Libano assistiamo al ritorno di movimenti e rivendicazioni che esistevano già prima della pandemia. La stessa cosa avviene in Francia, nelle periferie di Parigi, dove gli scontri recenti sono stati innescati (come diverse volte in passato) da un incidente che ha coinvolto le forze di polizia. In tutte queste situazioni la pandemia fa da sfondo e rappresenta sicuramente un fattore aggravante.

Tuttavia la paura del mondo riguarda la possibilità che si verifichino proteste o addirittura ribellioni direttamente collegate alla pandemia, soprattutto considerando le possibili carenze alimentari e il fatto che milioni di lavoratori irregolari hanno perso la loro fonte di sostentamento.

Laddove gli stati non riusciranno a proteggere i loro cittadini per mancanza di un’organizzazione adeguata c’è il rischio che nemmeno la paura del virus impedisca una rivolta dei disperati. Il 2019 è stato l’anno della collera. Il 2020 sarà l’anno in cui le conseguenze sociali della pandemia colpiranno crudelmente i più deboli.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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