In tempi normali la visita di un ministro degli esteri cinese non meriterebbe grandi approfondimenti. Ma quelli che viviamo non sono affatto tempi normali. Ormai da mesi le attività diplomatiche si svolgono più in videoconferenza che in presenza. Eppure Pechino ha ritenuto necessario inviare Wang Yi di persona in cinque paesi europei. Il giro è cominciato il 25 agosto in Italia, l’unico paese ad avere firmato un accordo con la Cina sulle “vie della seta”.
A rendere la visita particolarmente significativa è soprattutto il contesto internazionale. L’amministrazione Trump prosegue la sua escalation contro la Cina, annunciando quasi ogni giorno una nuova sanzione o una nuova misura per isolare il regime cinese. Gli ambiti di questa offensiva sono i più disparati: la tecnologia, Hong Kong, la minoranza uigura o il riavvicinamento a Taiwan.
Wang Yi arriva in Europa per “limitare i danni” e impedire (per quanto possibile) che i paesi dell’Ue siano coinvolti dallo spirito della “guerra fredda” che domina a Washington. Il problema è che il capo della diplomazia cinese si presenta a mani vuote.
I paesi dell’Unione hanno inasprito i toni nei confronti della Cina, ma si guardano bene dal riproporre l’aggressività di Donald Trump, che tra l’altro ha chiare motivazioni elettorali.
Wang Yi intende alimentare precisamente questa spaccatura tra le due rive dell’Atlantico. In questo senso è significativo che il ministro non farà tappa nel Regno Unito, ritenuto allineato a Washington sulla Cina dopo la decisione di escludere il fornitore Huawei dalla rete 5G e aprire la porte agli abitanti di Hong Kong in fuga.
Esistono situazioni in cui “dialogo” equivale a chiudere gli occhi
Il resto d’Europa ha mantenuto una posizione più ambivalente, prendendo le distanze da Pechino in molti settori ma mantenendo un dialogo (e importanti legami commerciali) con la Cina.
È una posizione difficile da giustificare, soprattutto davanti alle dure prese di posizione del regime cinese, dalla legge sulla sicurezza nazionale imposta in estate a Hong Kong ai campi di concentramento dove sono rinchiusi gli uiguri. Esistono situazioni in cui “dialogo” equivale a chiudere gli occhi.
Cosa può fare il ministro cinese? In realtà non molto. Wang Yi non ha alcuna risposta sui diritti umani, e al contrario ritiene che le critiche rappresentino ingerenze nella politica interna della Cina o che nascano da calunnie degli Stati Uniti. Inoltre il ministro non possiede la chiave per sbloccare il dialogo sino-europeo sugli investimenti, fermo da anni, né per fugare i timori a proposito della partecipazione di Huawei alla costruzione della rete 5G.
Wang Yi, che nel fine settimana sarà ricevuto a Parigi dal presidente Emmanuel Macron (un incontro di altissimo livello per un ministro degli esteri), non potrà far altro che valutare le posizioni europee in vista del vertice, stavolta in videoconferenza, previsto a metà settembre tra alcuni leader europei e il numero uno cinese Xi Jinping. A sei settimane dalle elezioni negli Stati Uniti, sarà un momento cruciale.
Per Pechino il tempo stringe. Se Joe Biden dovesse vincere le presidenziali di novembre, infatti, sarà molto più difficile ostacolare una convergenza tra Stati Uniti ed Europa, uno scenario che rischia di diventare inevitabile se la Cina continuerà a mostrarsi inflessibile.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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