Tra tutti i focolai di crisi che circondano la Cina, nessuno è pericoloso quanto quello che riguarda il destino dell’isola di Taiwan. Se la retorica guerrafondaia della riconquista è quella di sempre, meno abituale è la dimostrazione di forza militare che in questi giorni ha fatto salire drammaticamente la tensione.

Quasi ogni giorno i caccia cinesi entrano nello spazio aereo taiwanese, rischiando di provocare un incidente con le forze militari dell’isola che continua a sfuggire al controllo del Partito comunista cinese. Il rischio non è (ancora) quello di uno scoppio deliberato della guerra, ma quello di un incidente che possa mettere in moto un processo difficile da fermare.

Il 19 settembre, mentre un alto funzionario degli Stati Uniti si trovava a Taipei (con estremo fastidio di Pechino), non meno di 19 aerei cinesi hanno attraversato la “linea mediana” tra l’isola e il continente, frontiera simbolica tra i due paesi nemici. Il 22 settembre due aerei cinesi antisottomarino hanno fatto ingresso nello spazio aereo di Taiwan, spingendo Taipei ad annunciare che le difese antiaeree e l’esercito erano stati attivati.

La Cina è profondamente irritata dal sostegno sempre maggiore accordato dall’amministrazione Trump a Taiwan. Questo sostegno, inevitabilmente, rende le autorità dell’isola sempre più audaci. Oltre ai contatti politici a livelli più alti rispetto al passato, Washington si prepara a vendere sette miliardi di dollari di armi a Taiwan.

I mezzi d’informazione ufficiali cinesi riecheggiano la propaganda, a cominciare dal nazionalista Global Times che ha addirittura promesso di “eliminare” la presidente taiwanese Tsai Ing-wen in nome della “legge antisecessione” di Pechino.

Interrogato sulle incursioni aeree oltre la “linea mediana”, il portavoce del ministero degli esteri cinese ha dichiarato che la linea non esiste, perché Taiwan appartiene alla Cina. Una logica implacabile. Taiwan e la Cina continentale sono separate da oltre settant’anni, dai tempi della vittoria di Mao a Pechino. Da allora i due paesi si sono evoluti in direzioni opposte: la Cina è rimasta comunista, mentre l’isola si è democratizzata. Per trovare una tensione paragonabile a quella di questi giorni bisogna tornare indietro alle prime elezioni democratiche, più di vent’anni fa.

Per Pechino l’opzione militare è sempre stata sul tavolo. La Cina vorrebbe una riunificazione pacifica, ma se non fosse possibile ritiene inevitabile il ricorso alle armi.

A cambiare radicalmente la situazione è la vicenda di Hong Kong, il cui status autonomo avrebbe dovuto rappresentare un modello per Taiwan. Imponendo la sua legge a Hong Kong, Pechino sa perfettamente di aver perso ogni speranza di convincere Taiwan con la proposta di “un paese, due sistemi”.

I leader cinesi sono consapevoli che attaccando Taiwan si assumerebbero il rischio di uno scontro con gli Stati Uniti, ma forse ritengono che gli americani non siano pronti a “morire per Taiwan”. Questo, in ogni caso, è il genere di scenario catastrofico che può nascere da un’incursione aerea di troppo o da un’escalation mal gestita. Non ci siamo ancora arrivati, ma non siamo nemmeno troppo lontani.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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