È la guerra che non ci aspettavamo, o comunque non in un paese il cui primo ministro ha ricevuto l’anno scorso il premio Nobel per la pace. Questo paese è l’Etiopia, secondo stato più popoloso dell’Africa con più di cento milioni di abitanti e considerato come un modello di un ritorno alla vita democratica.

Il 4 novembre il primo ministro Abiy Ahmed ha lanciato un’offensiva militare contro le autorità dello stato federale del Tigrai, nel nord del paese. L’11 novembre Abiy ha annunciato che l’esercito nazionale ha riportato una vittoria totale.

Questa rivendicazione è impossibile da verificare, perché la regione del Tigrai è tagliata fuori dal mondo. Le comunicazioni sono interrotte e i giornalisti non sono graditi. Un indizio arriva però dal bilancio pesantissimo, soprattutto tra i civili.

Secondo Amnesty international nella notte tra il 9 e il 10 novembre centinaia di civili sono stati massacrati a colpi di machete nella località di May Kadra, nella regione del Tigrai. Testimonianze raccolte dall’organizzazione riferiscono però che le vittime non apparterrebbero all’etnia locale, ma ad altre etnie etiopi, e sarebbero state uccise dai miliziani tigrini per vendetta.

L’Etiopia è un antico impero. Tutti conoscono il nome dell’ultimo imperatore, Hailé Selassié, rovesciato dalla rivoluzione del 1974. Oggi la Repubblica federale etiope è un mosaico di popoli e religioni in cui spesso emergono forti tensioni.

Il Tigrai è un caso particolare, perché è dalla regione che è partita la rivolta contro il dittatore marxista-leninista Menghistu, impostosi dopo la rivoluzione. La guerriglia contro Menghistu ha preso il potere nel 1991, e l’ha conservato alla guida di un fronte rivoluzionario fino al 2018.

Quell’anno, dopo una grave crisi politica, Abiy Ahmed si è ritrovato a capo del paese, a cui ha imposto una nuova direzione: ha svuotato le carceri, liberalizzato l’economia (9 per cento di crescita) e soprattutto ha trovato un accordo di pace con i vicini eritrei, un risultato che gli è valso il Nobel per la pace.

Pressioni centrifughe
Ma alla fine le tensioni etniche e regionali hanno avuto ragione del giovane primo ministro. Davanti alla sfida del Tigrai, che si considera emarginato e coltiva velleità secessioniste, Abiy ha ritenuto di non avere altra scelta se non quella di usare la forza.

Davvero l’unità dell’Etiopia è minacciata? Il paese è effettivamente sottoposto a forti pressioni centrifughe. Negli anni ottanta l’Etiopia ha combattuto una guerra con la Somalia per il controllo dell’Ogaden, una provincia etiope popolata da somali. In seguito ha concesso l’indipendenza all’Eritrea, occupata dall’Etiopia dal 1961 al 1991.

Da due anni Abiy affronta intense tensioni regionaliste, con diversi popoli (tra cui quello a cui appartiene, gli oromo) in preda a una febbre identitaria.

Resta da capire se l’Etiopia sta vivendo il suo momento “jugoslavo”, ovvero la ribellione di una serie di popoli che vogliono uscire da un matrimonio non esattamente felice.

Questo potrebbe spiegare il metodo estremo adottato dal primo ministro, che vorrebbe scoraggiare chiunque aspiri a seguire l’esempio del Tigrai. E pazienza per il Nobel per la pace.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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