Il governo di Addis Abeba continua a parlare di una semplice operazione di polizia contro un territorio ribelle, ma in realtà lo scontro tra l’esercito federale etiope e le forze della regione del Tigrai, nel nord del paese, è una vera guerra, con lo spiegamento di mezzi blindati, aerei e decine di migliaia di soldati.

Tre settimane di combattimenti hanno provocato la fuga di almeno 30mila persone verso il vicino Sudan. Questo numero potrebbe aumentare rapidamente dopo l’ultimatum lanciato dall’esercito agli abitanti della capitale del Tigrai, Mekelle. I militari hanno chiesto alla popolazione di “liberarsi” dei leader del Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), che governano la regione. In caso contrario, assicurano, non avranno “alcuna pietà”.

L’escalation si accompagna alla posizione inflessibile del primo ministro etiope Abiy Ahmed rispetto a qualsiasi tentativo di mediazione, compresi quelli degli altri paesi africani. Addis Abeba ha respinto tutti gli inviti al dialogo, come quelli avanzati dai paesi vicini o dal presidente di turno dell’Unione africana, il sudafricano Cyril Ramaphosa. I diplomatici sono accolti come di prassi dal governo etiope, ma non possono visitare il Tigrai né incontrare i leader del Tplf, considerato come un’associazione di “banditi”.

Perché una posizione così ostile? La risposta va cercata nella storia violenta dell’Etiopia degli ultimi decenni e nella personalità ambivalente di Abiy, il capo del governo, a cui nel 2019 è stato assegnato il premio Nobel per la pace.

Partiamo dalla prospettiva storica. Il Tigrai ospita appena il 6 per cento dei cento milioni di abitanti del paese, ma ha sempre ricoperto un ruolo determinante. Dal Tigrai è partita la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Mengistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 aveva rovesciato l’imperatore Haile Selassie. Dopo aver vinto nel 1991 (insieme ad altre forze regionali), il Tplf è di fatto rimasto al potere per diciassette anni, guidato da un uomo forte, Meles Zenawi, che ha introdotto il federalismo nel paese. Nel 2012 la morte di Zenawi ha segnato l’inizio dei problemi per i tigrini, che sono stati progressivamente messi ai margini dopo l’arrivo di Abiy nel 2018.

La personalità di Abiy è il secondo elemento chiave della crisi attuale. Incensato per le sue misure progressiste, il primo ministro etiope è comunque un ex militare, dai metodi autoritari, ed è deciso a opporsi con ogni mezzo alle forze centrifughe che minacciano l’unità dell’ex impero.

Questo contesto lascia presagire un conflitto prolungato, perché il governo federale non interromperà l’operazione prima di aver riconquistato quantomeno Mekelle. La città, però, si trova a 2.500 metri d’altitudine, in una regione montuosa dove l’avanzata di un esercito regolare è piuttosto complicata.

Locomotiva ferma
Quanto alle forze del Tigrai, hanno chiaramente deciso di ripiegare sulla guerriglia in una regione che conoscono bene.

Nel frattempo i paesi della regione rischiano di essere trascinati in questa guerra civile, a cominciare dalla vicina Eritrea, già coinvolta nelle ostilità.

Quella in corso è una tragedia per l’Etiopia ma anche per il resto dell’Africa. L’Etiopia, infatti, è il secondo paese africano per popolazione, ospita la sede dell’Unione africana e dovrebbe essere una delle locomotive dell’anelata rinascita del continente. L’Africa deve fare tutto il possibile per mettere fine a questa guerra fratricida che rischia di avere conseguenze devastanti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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