Le immagini delle manifestazioni organizzate nel fine settimana in Birmania sono impressionanti, con decine di migliaia di persone scese nelle strade delle principali città, compresa Rangoon. Il ricordo dei massacri e della repressione feroce del passato è abbastanza vivo e ci permette di misurare il coraggio e la determinazione dei manifestanti, e il rischio che corrono.
Una settimana dopo l’arresto di Aung San Suu Kyi, con la proclamazione della legge marziale, è chiaro che la popolazione non accetta il ritorno di un regime militare esclusivo. Il 1 febbraio ci si chiedeva se i birmani, per paura o per rassegnazione, sarebbero rimasti passivi. La risposta è arrivata sotto forma di una massa di persone.
I militari stanno cercando di contenere le proteste in tutti i modi, tra interruzione delle connessioni internet, invio delle forze dell’ordine e arresti. Ma cosa accadrà se questa resistenza passiva e pacifica impedirà ai militari di governare? L’ombra dei massacri del passato aleggia sul conflitto in corso.
Occidente senza presa
Cosa potrebbe evitare un’escalation? La risposta è legata alle influenze esterne. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno condannato il colpo di stato e minacciano di ristabilire le sanzioni economiche che erano state cancellate con la democratizzazione. Ma l’occidente non ha una grande presa sulla dinamica birmana.
I miliari, in questo senso, hanno un asso nella manica: il sostegno del potente vicino cinese, che è arrivato al punto da presentare il colpo di stato come un semplice “rimpasto ministeriale”. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu Pechino ha fatto pressione per evitare la condanna del colpo di stato, accettando solo una manifestazione di “inquietudine”. L’Onu si è dimostrata impotente.
Per forza di cose la Birmania è diventata una partita tra Stati Uniti e Cina
Naturalmente il governo cinese non vorrebbe un bagno di sangue, anche perché uno sviluppo del genere costringerebbe la Cina a “coprire” un alleato ingombrante. Ma Pechino non intende nemmeno fare agli occidentali il regalo di spingere i militari a un passo indietro, e al massimo si limiterà a favorire un’uscita dalla crisi che garantisca i propri interessi.
Per forza di cose la Birmania è diventata una partita tra Stati Uniti e Cina. Il conflitto larvale tra le due superpotenze, infatti, fagocita tutto al suo passaggio, soprattutto in un momento segnato dal cambio della guardia a Washington. Joe Biden ha scelto di mantenere la linea dura contro Pechino adottata da Donald Trump, e il 7 febbraio ha dichiarato alla Cbs che il suo collega cinese Xi Jinping “non ha un’oncia di democrazia nel suo corpo”. Un attacco personale che non lascia presagire alcuna distensione.
La crisi birmana evolverà su due livelli, quello internazionale e quello interno. Sul piano internazionale abbiamo da un lato un presidente statunitense che imposterà la sua azione diplomatica sui diritti umani e vede nella Birmania una prima sfida da raccogliere; dall’altro la potenza crescente della Cina, che non intende sprecare l’occasione di inglobare definitivamente la Birmania nella sua sfera d’influenza.
Ma a decidere l’esito della crisi sarà prima di tutto la dinamica interna, incarnata dagli uomini e dalle donne che sfidano disarmati i militari. Il rapporto di forze è proibitivo, ma non bisogna sottovalutare l’energia di questa folla indignata.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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