Tutte le tragedie cominciano nello stesso modo: le prime immagini di rivolta o di mobilitazione, la speranza e le prime vittime suscitano grandi emozioni e conquistano le prime pagine dei giornali. Poi la ripetizione delle scene di repressione e il sentimento di impotenza davanti ai crimini prendono il sopravvento, prima di cedere progressivamente il passo a un silenzio imbarazzato.
Abbiamo assistito a questo processo in Siria, in una rivoluzione abortita di cui commemoriamo il triste decimo anniversario. Ora c’è il rischio che la storia si ripeta in Birmania, paese che ogni giorno sprofonda un po’ di più nell’orrore del colpo di stato militare. Una testimonianza pubblicata il 15 marzo dal quotidiano britannico The Guardian fa tremare: è la storia di Zaw Myatt Lynn, insegnante di 46 anni ed esponente attivo della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Una sera i militari sono andati a cercarlo nella sede della sua scuola alla periferia di Rangoon.
Pochi giorni dopo la moglie di Lynn è stata invitata a recuperarne il corpo in un ospedale militare. Secondo la versione ufficiale l’uomo è morto tentando la fuga, ma un giornalista del Guardian ha potuto vedere le foto del cadavere, atrocemente torturato, bruciato e sfigurato con agenti chimici. Questa è la realtà della repressione in Birmania.
La rivalità sino-americana inquina tutte le relazioni internazionali
Un mese e mezzo dopo il colpo di stato, l’escalation della repressione dei militari non ha ancora fermato la mobilitazione popolare, che continua a chiedere quotidianamente il ritorno alla vita democratica e la liberazione dei leader civili, tra cui Aung San Suu Kyi.
Nel frattempo il bilancio continua ad aggravarsi. Domenica 14 marzo è stata la giornata più nera, con quasi cinquanta morti. Il totale delle vittime è arrivato a 120. Il 15 marzo le reti della telefonia mobile sono state tagliate, e in alcuni quartieri di Rangoon è stata instaurata la legge marziale, conferendo ulteriori poteri ai militari.
In questo contesto è impressionante che la popolazione continui a scendere in piazza, tanto più che i birmani sanno di non poter contare su un appoggio esterno significativo.
Un punto di non ritorno
La popolazione birmana paga il prezzo delle divisioni del mondo attuale. Come accaduto ai siriani dieci anni fa, quando tutte le iniziative del Consiglio di sicurezza dell’Onu si scontrarono con l’opposizione russa, oggi la Birmania deve fare i conti con l’influenza della Cina.
La rivalità sino-americana inquina tutte le relazioni internazionali, e finora la Cina è riuscita a smorzare ogni risoluzione dell’Onu. Il regime cinese ne paga il prezzo: negli ultimi giorni Pechino ha denunciato aggressioni e atti vandalici contro 32 fabbriche cinesi a Rangoon, mentre due espatriati sono stati feriti. I cinesi sono percepiti come alleati della giunta.
Gli Stati Uniti e l’Europa impongono sanzioni contro i dirigenti della giunta militare, ma il loro impatto è limitato e chiaramente insufficiente a far cambiare idea a uomini che ordinano di sparare sui civili. Solo un’azione concreta e collettiva (che comprenda anche la Cina) potrebbe alterare la situazione birmana, ma è quasi impossibile che accada. I birmani, intanto, si ritrovano soli davanti a un esercito che ha superato il punto di non ritorno.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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