Di solito quando qualcuno prende ostaggi all’interno di una banca lo fa per rubare il denaro custodito nelle casse. Ma non in Libano. L’11 agosto un uomo ha sequestrato alcuni dipendenti e clienti in una sede della Federal Bank, nel quartiere di Hamra, a Beirut. Il motivo? Voleva recuperare il suo denaro. Fatto ancora più sorprendente, decine di persone si sono ammassate fuori della banca per sostenerlo, rendendo necessario l’intervento della polizia in tenuta antisommossa.

L’incidente si è concluso nel migliore dei modi, con la liberazione degli ostaggi e un accordo con l’uomo, disperato perché doveva pagare fatture mediche e non riusciva ad accedere ai suoi risparmi, bloccati come quelli di tutti i libanesi dopo la crisi finanziaria del 2019. Ma questo è solo uno degli esempi del tracollo di uno stato che paradossalmente, in passato, era definito “la Svizzera del Medio Oriente”.

Le apparenze ingannano. In estate il paese rifiorisce grazie all’arrivo dei libanesi della diaspora, tornati per le vacanze portando con sé regali e valuta estera (dollari ed euro). I ristoranti e i bar sono pieni e la crisi economica, di conseguenza, diventa meno visibile. Ma è sempre lì, come dimostrano i vertiginosi tassi di cambio: per saldare un conto al ristorante servono milioni di lire libanesi, naturalmente in contanti.

L’arte di barcamenarsi
All’inizio della discesa verso gli inferi, nel 2019, bastavano 1.500 lire per un dollaro. Questa estate ne servono trentamila, che secondo gli economisti diventeranno quarantamila entro la fine dell’anno, fino a raggiungere le centomila se la tendenza non sarà arginata. Oggi in Libano bisogna destreggiarsi tra i pagamenti in veri dollari statunitensi, quelli in “lollari” (lire-dollari, originate dai prelievi bancari limitati di valuta e calcolate ai tassi ufficiali) e quelli in lire libanesi, scambiate apertamente al tasso parallelo. Per barcamenarsi bisogna essere abili calcolatori.

Niente cambia perché nessuno vuole davvero che qualcosa cambi

L’altro incubo è quello della corrente elettrica. Simbolo della crisi, il palazzo dell’azienda elettrica libanese Edl è stato devastato dall’esplosione del porto di Beirut del 4 agosto 2020 e successivamente abbandonato. Oggi l’azienda statale eroga appena un’ora di corrente elettrica al giorno, e le spese dei privati per i generatori arrivano fino a 300-500 euro al mese. I pannelli solari stanno finalmente cominciando a diffondersi. Come sempre, i libanesi si arrangiano senza alcuna assistenza da parte dello stato.

La popolazione oscilla tra la collera e la rassegnazione, scontrandosi quotidianamente con l’implacabile realtà di un sistema politico basato sui clan e con il contesto geopolitico. Niente cambia perché nessuno vuole davvero che qualcosa cambi. Il Libano, oggi come ieri, è ostaggio di meccanismi che lo sovrastano. Beirut attende con ansia di conoscere il risultato del negoziato sul nucleare iraniano a Vienna, che si avvicina alla sua conclusione e condiziona la discussione israelo-libanese sulla condivisione delle acque del Mediterraneo sotto egida dell’Onu (possibile causa di una nuova guerra tra Israele e Hezbollah). Ma qual è il nesso tra le due vicende? A Beirut nessuno si pone più queste domande…

A prescindere dalla situazione locale e internazionale è difficile non condividere la rabbia dei libanesi passando davanti agli ultimi silos rimasti in piedi nel porto di Beirut, dove ancora si alza un fumo bianco due anni dopo l’esplosione, tutt’ora impunita.

Tra interminabili discussioni sul futuro del paese è impossibile non comprendere la sensazione di impotenza di un editorialista del giornale francofono L’Orient-Le-Jour: “Permettere che i sabotatori facciano di noi un popolo di piagnoni significa rassegnarsi all’idea che un giorno piangeremo il Libano intero”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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