Un aspetto positivo delle elezioni in Turchia è sicuramente l’affluenza vicina al 90 per cento, un dato che fa impallidire diverse democrazie stanche sia d’Europa sia d’America. Tuttavia questa voglia di partecipare, caratteristica essenziale della società civile, si accompagna a una perdita della fiducia altrettanto impressionante. La sera del 14 maggio, davanti all’annuncio dei primi risultati, sono volate immediatamente le accuse di brogli.
Era inevitabile, dopo vent’anni di governo di un solo partito e soprattutto di un solo uomo, Recep Tayyip Erdoğan, che ha considerato lo stato come una sua proprietà e ha sostenuto di essere indispensabile se non addirittura l’unico legittimato a governare. Sul fronte opposto, l’opposizione finalmente riunita dietro un buon candidato, Kamel Kılıçdaroğlu, ha percepito il vento del cambiamento al punto da convincersi che solo i brogli avrebbero potuto impedirne la vittoria.
Due pericoli
Dopo ore di tensione ed emozioni, sembra che sarà necessario un secondo turno. Perfino Erdoğan l’ha ammesso dopo aver cercato di proclamarsi vincitore al primo turno. In un paese spaccato in due e alle prese con una scelta tra due percorsi politici e stili opposti, le prossime due settimane saranno ad alto rischio.
I pericoli sono essenzialmente due: innanzitutto quello di manovre illecite e atti di violenza nei prossimi 13 giorni di campagna elettorale, dopo che il primo turno ne è stato relativamente risparmiato; in secondo luogo quello di una contestazione del risultato finale, come accade sempre più spesso.
La democrazia non è impotente, come dimostrano i recenti esempi di Stati Uniti e Brasile
Ormai da qualche tempo i processi elettorali – in Turchia e non solo, purtroppo – sono entrati nell’epoca del sospetto. In questo senso la responsabilità di Donald Trump e dei suoi sostenitori è immensa, con la guerriglia giuridica e poi l’assalto al congresso del 6 gennaio 2021 per impedire la convalida dell’elezione di Joe Biden.
Se il presidente in carica della prima potenza mondiale dà il cattivo esempio, è difficile sorprendersi quando gli altri lo seguono. Dopo il Brasile di Bolsonaro, la Turchia di Erdoğan entra nel novero dei paesi dove le elezioni si svolgono in condizioni soddisfacenti, ma il risultato viene contestato quando non è favorevole al capo populista in carica.
Ma la democrazia non è impotente, come dimostrano gli esempi di Stati Uniti e Brasile, dove i sistemi di difesa democratica hanno funzionato. La minaccia, in ogni caso, resta presente.
Nel mondo esistono cinquanta sfumature di democrazia. Alcune sono del tutto fittizie: Vladimir Putin si fa rieleggere senza correre alcun rischio, mentre i suoi oppositori sono in prigione e i mezzi d’informazione sono messi a tacere.
Altri sistemi, come quello di Narendra Modi in India o di Erdoğan in Turchia, presentano chiari elementi autoritari, ma al contempo non hanno (ancora) neutralizzato il processo elettorale. In India, per esempio, il partito del primo ministro ha appena perso il controllo di uno stato popolato da 65 milioni di persone, il Karnakata.
Questa sorta di limbo permette schiarite democratiche a condizione che i partiti politici restino forti e che la società civile vigili attentamente. È ancora il caso della Turchia, e questo malgrado la repressione implacabile dopo il tentativo di colpo di stato del 2016.
Erdoğan può sicuramente contare su una base elettorale solida ed è ancora in grado di vincere. Questa è la prima lezione del voto del 14 maggio. Ma il presidente è anche costretto ad accettare l’idea di poter perdere. È nell’alternanza che la democrazia turca (o ciò che ne rimane) può dare prova della sua resistenza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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