Una battaglia discreta ma feroce, in corso ormai da anni, è arrivata al momento cruciale: il mondo autorizzerà lo sfruttamento minerario dei fondali marini? A partire dal 10 luglio, i 168 paesi che fanno parte dell’Autorità internazionale per i fondali marini, con sede a Kingston (Giamaica), si sono riuniti per una conferenza che durerà tre settimane da cui potrebbe emergere un codice minerario, mettendo fine ad anni di contrasti ed esitazioni.
La posta in gioco è naturalmente ambientale, ma anche economica e geopolitica, considerando che viviamo in un’epoca in cui alcune materie prime hanno un peso enorme. Sull’argomento il mondo è diviso in due: da una parte chi sottolinea che abbiamo bisogno di questi minerali per sviluppare le “tecnologie verdi” (pannelli solari, batterie eccetera) e che estrarli dai fondali marini inquinerebbe meno rispetto a farlo sulla terra; dall’altro chi ricorda che ancora non conosciamo abbastanza l’ecosistema dei grandi fondali marini e che dunque bisognerebbe evitarne lo sfruttamento prima di essere certi che non distruggeremmo in modo irrimediabile una grande parte della natura, magari accelerando la catastrofe climatica.
Sorprendentemente, la Francia è in prima linea tra i paesi contrari allo sfruttamento. Dico “sorprendentemente” perché per molto tempo Parigi ha fatto parte dello schieramento opposto, con il suo gigantesco spazio marittimo (il secondo al mondo). Ma a giugno del 2022 Emmanuel Macron ha sorpreso tutti dichiarandosi favorevole a una moratoria prolungata rispetto a “nuove attività che metterebbero in pericolo l’ecosistema”. Al presidente francese si è aggiunto un gruppo di paesi tra cui la Germania, il Cile e diversi stati insulari del Pacifico, che lotteranno insieme per far prevalere la loro posizione alla conferenza di Kingston. Sul fronte opposto troviamo una coalizione eterogenea che comprende la Cina ma anche la Corea del Sud, la “virtuosa” Norvegia e persino Nauru, isola del Pacifico che minaccia di forzare l’approvazione di una richiesta di sfruttamento dei fondali (per conto di una società canadese) approfittando di un buco nella normativa internazionale.
La questione dei minerali strategici è di capitale importanza. Negli ultimi vent’anni la Cina ha costruito un impero grazie alle risorse minerarie indispensabili per le tecnologie moderne, dal cobalto al nickel fino alle terre rare. È dunque in un contesto di lotte geopolitiche ed economiche che si svolge il negoziato sui fondali marini. Oggi c’è un grande appetito per i noduli polimetallici, per le croste ricche di cobalto e per gli ammassi sulfurei che si trovano a grandi profondità e contengono i minerali che mancano in superficie.
Un patrimonio da proteggere
Nel 1982, dopo quasi trent’anni di discussioni, gli stati del mondo avevano deciso di definire i fondali “patrimonio comune” dell’umanità, ma senza fissare regole precise. Ora è arrivato il momento di decidere se questo patrimonio comune è destinato a essere sfruttato e condiviso con modalità da definire o se invece, in un momento in cui il problema climatico è sempre più grave, decideremo di proteggerlo.
In questo dibattito emerge un enorme paradosso, perché chi vorrebbe lo sfruttamento dei fondali sottolinea la necessità di ottenere i minerali indispensabili per la transizione ecologica. Ma già oggi, sulla terra, l’estrazione di cobalto, minerale molto richiesto per produrre le batterie elettriche, avviene in condizioni indegne nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, con decine di migliaia di bambini costretti a lavorare (il materiale viene poi raffinato in Cina). Noi consumatori, che ci troviamo al termine della catena, chiudiamo gli occhi convinti di aver contribuito a salvare il pianeta con le nostre auto elettriche. In sostanza rischiamo di distruggere il pianeta per salvarlo… Il paziente morirà in ottima salute, per parafrasare l’umorista Pierre Dac. Forse è arrivato il momento di fermarsi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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