×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

I palestinesi hanno bisogno di nuovi leader

Gaza, 19 ottobre 2023. (Mustafa Hassona, Anadolu/Getty Images)

Chi può parlare a nome dei palestinesi? È una domanda attualmente senza risposta, ma quando il fragore delle armi sarà finalmente cessato bisognerà affrontarla. Anche se oggi sembra inimmaginabile, prima o poi il processo politico dovrà necessariamente ripartire per mettere fine alla violenza. E allora chi sarà l’interlocutore?

Le due principali forze nel campo palestinese hanno un problema grave. Attaccando Israele, Hamas ha sicuramente raggiunto una grande popolarità tra i palestinesi senza speranza, ma i suoi metodi terroristici lo escludono da qualsiasi possibile dialogo. La storia ci insegna che non bisogna mai dare nulla per scontato, ma al momento un suo coinvolgimento sembra impossibile.

La seconda forza, l’Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen, rappresenta ciò che resta dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, che ai tempi di Yasser Arafat era al centro della trattativa. Oggi la crisi dell’Autorità palestinese è profonda e probabilmente irreversibile.

A 88 anni Abu Mazen guida un’organizzazione che è ormai l’ombra di se stessa. L’Autorità palestinese è sopravvissuta al fallimento degli accordi di Oslo del 1993, ma oggi, impotente ed emarginata dagli israeliani, incarna l’impasse di qualsiasi processo di pace.

Il 18 ottobre i manifestanti che si sono dati appuntamento a Ramallah dopo la tragedia dell’ospedale di Gaza hanno cercato di entrare nell’ufficio di Abu Mazen, ma sono stati fermati dalla polizia palestinese.

Esistono altri attori minori, come la Jihad islamica, violenta quanto Hamas, o il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione marxista che non ha più il peso che aveva sotto George Habash, morto quindici anni fa.

Iscriviti a
Mediorientale
Cosa succede in Medio Oriente. Una newsletter a cura di Francesca Gnetti. Ogni mercoledì.
Iscriviti
Iscriviti a
Mediorientale
Cosa succede in Medio Oriente. Una newsletter a cura di Francesca Gnetti. Ogni mercoledì.
Iscriviti

Negli ultimi mesi, segnati dal vuoto politico e dalla violenza crescente dei coloni, in Cisgiordania c’era chi annunciava una terza intifada, dopo le rivolte del 1987 e del 2000. Ma l’attacco terrorista del 7 ottobre ha cambiato le carte in tavola.

Dopo questa guerra il conflitto israelo-palestinese non sarà più lo stesso, a causa sia del trauma subìto dalla società israeliana sia del ritorno della quesitone palestinese al centro della scena. La speranza di neutralizzare i palestinesi attraverso i cosiddetti accordi di Abramo tra Israele e i paesi arabi si è rilevata illusoria. In privato, anche gli occidentali oggi si pentono di aver abbandonato qualsiasi tentativo diplomatico.

Ma per negoziare serviranno interlocutori all’altezza. Sul fronte israeliano cambieranno sicuramente quando il paese farà i conti con il fallimento del 7 ottobre, mentre su quello palestinese bisognerà trovare il modo di fare emergere nuovi leader.

In questo senso c’è chi guarda ai detenuti nelle carceri israeliane, come Marwan Barghouti, dirigente di Al Fatah condannato vent’anni fa per alcuni attentati. Il suo nome era già sulla lista dei prigionieri che Hamas voleva scambiare per il soldato Gilad Shalit, anche se non fa parte della corrente islamista. Lo scenario di una sua liberazione resta possibile.

Al momento è ancora troppo presto per fare ipotesi, ma i palestinesi sono chiaramente orfani di leader credibili. Per uscire dall’impasse sarà indispensabile colmare questo vuoto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

pubblicità