La storia ci insegna che quando un paese è in guerra, inizialmente la popolazione si stringe intorno al suo leader. Ma Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, è un caso a parte.
La sera del 6 gennaio migliaia di israeliani si sono riuniti nel centro di Tel Aviv e di altre grandi città per chiedere le sue dimissioni e la convocazione di elezioni anticipate. Oggi i sondaggi parlano di un gradimento di appena il 15 per cento per il primo ministro. Al momento nessuno dei principali alleati del paese si fida di Netanyahu, a cominciare dagli Stati Uniti e da Joe Biden.
Eppure, tre mesi dopo il massacro del 7 ottobre, compiuto da Hamas in Israele, Netanyahu è ancora al suo posto e non ha nessuna intenzione di mollare un potere che detiene da così tanto tempo da poter vantare il record come primo ministro più longevo della storia dello stato ebraico. Per costringerlo a uscire di scena dovrebbe verificarsi una rottura nella coalizione di governo, che può contare su una maggioranza di quattro seggi alla knesset, il parlamento israeliano.
La questione del destino del primo ministro è fondamentale sia per le operazioni militari nella Striscia di Gaza (e nel nord del paese contro Hezbollah) sia soprattutto per la gestione del dopoguerra, da cui Netanyahu non vuole essere escluso.
Le ragioni della sua impopolarità sono molte, e principalmente di tre ordini. Prima di tutto c’è la tensione alimentata nell’ultimo anno dalla coalizione di estrema destra. Per tutto il 2023, fino al 7 ottobre, centinaia di migliaia di israeliani hanno protestato ogni settimana contro un progetto di riforma sostenuto dal governo che imporrebbe al paese una deriva illiberale.
La settimana scorsa, nonostante la guerra, la corte suprema israeliana, principale garanzia democratica dello stato ebraico, ha bocciato una delle proposte chiave della riforma. Un editorialista religioso ha scritto su X che la sentenza era più grave del massacro del 7 ottobre, ma poi ha fatto marcia indietro. In ogni caso la sfiducia nei confronti di Netanyahu è enorme, così come la sua impopolarità.
Il secondo motivo di questa ostilità è il disastro emerso il 7 ottobre dal punto di vista della sicurezza, di cui Netanyahu rifiuta di accettare la responsabilità. La settimana scorsa lo stato maggiore dell’esercito ha avviato un’indagine interna sugli errori che sono costati la vita a 1.200 persone assassinate da Hamas. L’ala destra del governo ha protestato con forza, mostrando tutta la sua paura sull’esito dell’inchiesta.
Il terzo motivo riguarda la guerra. Molti israeliani sono divisi tra il desiderio di vendetta dopo gli orrori del 7 ottobre e il risentimento nei confronti del primo ministro, soprattutto sulla questione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, un tema che sembra passato in secondo piano.
Anche gli statunitensi non si fidano di Netanyahu, a cui rimproverano la strategia che ha provocato migliaia di vittime a Gaza. Tuttavia, hanno le mani legate nel gioco di potenze regionale rispetto all’Iran. In un articolo dello scorso fine settimana il Washington Post ha sottolineato che l’amministrazione Biden teme che Israele inneschi deliberatamente un’escalation contro Hezbollah, il movimento libanese filoiraniano.
Ma è rispetto al dopoguerra che queste considerazioni diventano cruciali. Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra, che sognano apertamente una pulizia etnica a Gaza, non vogliono una soluzione politica che coinvolga i palestinesi.
A Washington sperano in un dopoguerra senza Hamas, ma anche senza Netanyahu. Al momento non ci sono certezze. Di sicuro c’è soltanto il fatto che il primo ministro israeliano ha mostrato nel corso degli anni di avere un grande talento nel garantirsi la sopravvivenza politica.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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