Tra i quattro miliardi di abitanti del mondo chiamati alle urne nel 2024, in elezioni più o meno democratiche, ce ne sono 24 milioni per cui il voto è un gesto quasi esistenziale: sono i cittadini di Taiwan, isola la cui esistenza legale non è riconosciuta quasi da nessuno e che rischia di essere riunificata alla Cina (dove quest’anno non si voterà).

Di Taiwan conosciamo l’equazione geopolitica. L’isola ribelle a duecento chilometri dalle coste cinesi è rivendicata da Pechino ed è al centro della rivalità strategica sino-americana. Meno nota è la posta in gioco democratica.

Al di là delle vicissitudini storiche che hanno separato il continente da Taiwan, ciò che distingue i due mondi è la presenza della democrazia. Taiwan è l’unico territorio di cultura e lingua cinese a essere davvero democratico.

Al centro dello scontro
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Nel 1999 mi sono occupato personalmente delle prime elezioni che hanno consentito un’alternanza del potere a Taiwan, con la vittoria di Chen Shui-bian. Da allora il potere è passato di mano diverse volte in modo assolutamente costituzionale. Sono pochi i paesi che possono vantare un percorso così virtuoso.

Taiwan è una democrazia relativamente giovane. L’isola ha subìto una dittatura feroce per due terzi della sua esistenza autonoma, cominciata nel 1949, quando il nazionalista cinese Chiang Kai-shek, rivale dei comunisti di Mao Zedong, si rifugiò a Taiwan dopo la sconfitta nella guerra civile per preparare al meglio una riconquista che non avvenne mai. Grazie a un milione e mezzo di soldati e combattenti, Chiang impose il suo potere attraverso il cosiddetto terrore bianco, con esecuzioni, deportazioni e censura.

La lotta per la democrazia è stata condotta contemporaneamente alla missione per il riconoscimento dell’identità dell’isola. Questa identità, oggi al centro della battaglia politica interna e regionale, mescola in modo indissolubile la cultura dell’isola e la democrazia. Entrambe, più che imposte dall’esterno, sono state conquistate dagli abitanti di Taiwan, per cui rappresentano un motivo d’orgoglio.

Tutto questo è al centro delle elezioni che si svolgeranno il 13 gennaio, con tre candidati alla presidenza. Il favorito è il vicepresidente William Lai, candidato del Partito progressista democratico, che incarna un’identità diversa da quella della Cina continentale. Lai non sostiene l’indipendenza (sa bene che farlo significherebbe scatenare una guerra) ma solo il mantenimento dello status quo: ognuno per conto suo.

Hou Yu-ih è il candidato del Kuomintang, storico partito dell’ex dittatore. Hou vorrebbe migliorare le relazioni con Pechino per evitare una guerra, ma non riesce a liberarsi dell’immagine del passato. Il terzo incomodo, Ko Wen-je, rappresenta un’alternativa ai primi due.

Per capire fino a che punto la questione dell’identità è centrale bisogna ricordare che nell’arco di una generazione gli abitanti di Taiwan che si considerano cinesi sono passati da un terzo della popolazione ad appena il 5 per cento. Oggi la maggioranza si dichiara taiwanese, mentre una minoranza sostiene di essere taiwanese e cinese. Pechino fa paura, insomma. Gli abitanti di Taiwan non vogliono perdere né la loro identità né la loro democrazia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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