La vetrina della democrazia è andata in frantumi. Visto da fuori, il Senegal è sembrato a lungo un modello nell’Africa francofona: il primo paese a sperimentare il multipartitismo; il primo in cui un presidente (Léopold Sédar Senghor) ha lasciato volontariamente il potere; e il primo a vivere un’alternanza democratica relativamente senza problemi.

Ma questo percorso si è interrotto dopo che l’attuale presidente Macky Sall ha sospeso le elezioni per scegliere il suo successore, previste per il 25 febbraio. Una decisione arbitraria, che ha suscitato la rabbia di una parte della popolazione e ha spinto il paese verso acque inesplorate.

Il 5 febbraio il parlamento ha faticosamente adottato una mozione che convalida la mossa del presidente, mentre da due giorni le strade sono piene dell’odore dei gas lacrimogeni, come nel 2021 e nel 2023, quando i giovani manifestanti diedero vita a violente proteste. Il blocco all’accesso a Internet contribuisce alla sensazione di apnea democratica imposta all’improvviso.

L’unica certezza è che il mandato del presidente termina il 2 aprile e che Sall intende restare al suo posto almeno fino al 15 dicembre, data fissata dal parlamento per le nuove presidenziali. Dopo il 2 aprile il Senegal si ritroverà in una situazione di totale incertezza.

La ragione ufficiale della crisi è stata la decisione del consiglio costituzionale senegalese di escludere dalla lista dei candidati Karim Wade, che vive in esilio ed è il figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade, e di accettare invece un’altra candidatura controversa. Due giudici della corte sono stati accusati di corruzione.

Ma il vero motivo di quello che sta succedendo è la paura di una vittoria di un partito radicale, nonostante il suo leader, Ousmane Sonko, sia stato incarcerato. Il candidato del partito al potere, il primo ministro Amadou Bâ, è contestato dalla popolazione e secondo i sondaggi perderebbe al secondo turno.

Il timore dell’establishment politico di perdere il potere ha spinto Sall a compiere un gesto inimmaginabile: sospendere il processo elettorale, proprio lui che l’anno scorso aveva dato il buon esempio rinunciando alla tentazione di candidarsi per un terzo mandato, vietato dalla costituzione.

Gli oppositori di Sall parlano di “colpo di stato istituzionale”, simile ai golpe militari nei paesi vicini. In effetti, in queste democrazie senza democratici si stanno facendo dei passi indietro.

L’Africa occidentale si allontana da sistemi democratici imperfetti, creati in molti casi dopo la caduta del muro di Berlino, trentacinque anni fa. Queste democrazie di facciata non hanno garantito la trasparenza né il progresso economico e sociale. Il prezzo del loro fallimento è il ritorno dell’autoritarismo.

Di fronte alle reazioni molto prudenti della Francia, dell’Unione europea e degli Stati Uniti, a stupire è soprattutto la loro impotenza. Parigi, ex potenza coloniale che mantiene una base militare a Dakar, teme di diventare il capro espiatorio della rabbia popolare contro Sall, giudicato vicino al presidente francese Emmanuel Macron. In occasione delle proteste senegalesi del 2021 gli obiettivi erano stati francesi, dai supermercati alle stazioni di servizio.

A prescindere da cosa succederà nell’immediato futuro, possiamo essere sicuri che in Senegal non si tornerà indietro: il modello politico degli ultimi decenni ha fatto il suo tempo. Resta da capire se il paese saprà reinventare la sua democrazia o se intraprenderà una discesa agli inferi, come alcuni stati vicini. In ogni caso non è una buona notizia per il continente.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it