Esiste un eccellente barometro delle tensioni internazionali: le spese per gli armamenti. Il Sipri, l’istituto indipendente di Stoccolma che raccoglie i dati in tutto il mondo, ha pubblicato il 22 aprile il suo rapporto annuale. Com’era prevedibile, il 2023 ha segnato una serie di nuovi record.

In totale sono stati spesi 2.300 miliardi di euro, con un aumento del 6 per cento rispetto al 2022: la più grande crescita registrata dal Sipri da più di dieci anni. Soprattutto, l’istituto ha rilevato che per la prima volta le spese sono aumentate ovunque e non solo nei paesi in guerra. I conflitti coinvolgono 56 nazioni, non soltanto le due che dominano le notizie.

Terza
Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, l’Italia è il terzo maggior esportatore di armi verso Israele.

La mole infinita di dati dell’istituto, attivo ormai da sessant’anni, permette di contestualizzare e mettere in prospettiva le spese militari. In rapporto alla ricchezza nazionale, il picco di spesa per la difesa degli Stati Uniti (primi in classifica) risale al 1952, quando il paese investì il 13,9 per cento del suo Pil in quel settore. Era in corso la guerra di Corea, la cortina di ferro era calata sull’Europa e tutti si preparavano a un nuovo conflitto.

Oggi, in percentuale, le spese sono nettamente inferiori. Negli Stati Uniti sono diminuite al 6-8 per cento del Pil durante la guerra in Vietnam e al 5 per cento nel 1992, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando George Bush evocava i “dividendi della pace”. Nel 2023 gli Stati Uniti hanno speso il 3,9 per cento del loro Pil per la difesa. Si tratta del budget più alto in valore assoluto, ma in percentuale è inferiore a quello della Cina e soprattutto della Russia, che sfiora il 6 per cento.

Alcuni paesi hanno spinto sull’acceleratore, convinti che la guerra sia alle porte anche per loro. Un esempio è la Polonia, che spende più di tutti tra i paesi dell’Unione europea (4 per cento del Pil). Mentre il Giappone, a lungo limitato dalla sua costituzione, ha raddoppiato il budget per la difesa.

La Francia, che nel 1952 spendeva il 7 per cento del Pil per la difesa e che in seguito è rimasta attorno al 3 per cento (anche dopo la fine della guerra in Algeria), da una quindicina d’anni era scesa sotto il 2 per cento, ma ora ha incrementato di nuovo il budget per rispettare il criterio del 2 per cento fissato come obiettivo dalla Nato.

I numeri, però, non dicono tutto. Danno una misura delle tensioni nel mondo e della tendenza a ricorrere alla forza per risolverle, simboleggiata dall’invasione russa dell’Ucraina. Ma non parlano del grande salto in avanti nella tecnologia militare e dell’allargamento dei conflitti allo spazio, ai ciberattacchi e all’universo sottomarino, con i suoi cavi per la connessione a internet. Non dicono niente neanche dell’irruzione dell’intelligenza artificiale nei sistemi militari.

Possiamo criticare l’aumento delle spese militari e ricordarci dello psicodramma durante l’ultima conferenza delle Nazioni Unite (Cop28) per trovare cento miliardi di aiuti ai paesi del sud per aiutarli ad affrontare la crisi climatica, ma la sostanza non cambia: il mondo è entrato in un nuovo ciclo di brutale squilibrio. I governi, a quanto pare, si affidano ancora al vecchio adagio romano “si vis pacem, para bellum”: se vuoi la pace, prepara la guerra.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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