Benjamin Netanyahu non ha l’abitudine di scusarsi, come ha ampiamente dimostrato nei decenni in cui è stato al potere. Eppure il 27 maggio ha deciso di farlo, in una breve dichiarazione davanti al parlamento israeliano. Un “tragico incidente”: è così che il primo ministro ha definito il bombardamento eseguito il giorno prima dall’aviazione israeliana su una tendopoli di profughi alla periferia di Rafah, a sud della Striscia di Gaza. L’ultimo bilancio parla di 45 morti e 249 feriti. È il singolo attacco più grave negli otto mesi di guerra.

La scuse lapidarie di Netanyahu dimostrano che per una volta il governo israeliano ha preso in considerazione le reazioni del mondo davanti alle immagini raccapriccianti delle tende in fiamme e dei corpi carbonizzati. In un tweet Emmanuel Macron si è detto “indignato” e ha invocato il rispetto del diritto umanitario internazionale, oltre a chiedere nuovamente un cessate il fuoco. Appelli simili sono arrivati da quasi tutti i paesi.

L’imbarazzo di Washington è percepibile ed è probabile che abbia avuto un peso sull’atteggiamento di Netanyahu. Joe Biden chiede da settimane che Israele rinunci all’operazione a Rafah, considerando il rischio di una carneficina di civili.

Il 24 maggio la Corte internazionale di giustizia (Cig) delle Nazioni Unite aveva intimato a Israele di interrompere le operazioni militari a Rafah che mettono a repentaglio la vita dei civili. Lo stato ebraico non ha mai pensato di obbedire, soprattutto dopo che il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) ha chiesto di spiccare mandati d’arresto nei confronti di Netanyahu e del ministro della difesa israeliano, oltre che di alcuni leader di Hamas.

Ma Israele avrebbe fatto molto meglio a considerare le richieste della Cig, perché oggi il dramma di Rafah aumenta ulteriormente l’isolamento internazionale dello stato ebraico e conferisce un peso maggiore alle richieste di sanzioni.

Questa tragedia, tra l’altro, rischia di compromettere le discussioni avviate nel fine settimana durante una riunione a Parigi con il direttore della Cia, organizzata con l’obiettivo di riallacciare il negoziato per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.

Le scuse del primo ministro sono il segno di un cambio di rotta? Poco probabile, perché Netanyahu è determinato a proseguire le operazioni militari a Gaza e forse anche su altri fronti, come il Libano o l’Iran. D’altronde è in questi termini che si è espresso il 27 maggio alla Knesset. Dopo la scuse, infatti, il primo ministro ha mostrato di non tenere conto delle pressioni internazionali: “Ci hanno detto di non lanciare un’operazione terrestre, e noi l’abbiamo fatto. Ci hanno detto di non andare a Rafah, e noi ci siamo andati”. Netanyahu ha perfino citato l’Iran, prima di aggiungere: “Non ho intenzione di parlarne”.

Il proseguimento di questa guerra nella forma attuale, con un devastante bilancio di vittime destinato a crescere, rende l’atteggiamento passivo della comunità internazionale difficilmente sopportabile. Da settimane la Francia sostiene una risoluzione dell’Onu negoziata con tutte le parti, ma è bloccata dalla minaccia del veto statunitense.

Abbiamo parlato degli ucraini vittime del bombardamento di Charkiv e delle richieste d’aiuto del presidente Volodymyr Zelenskyj. Le vittime civili palestinesi hanno diritto alla stessa attenzione e alla stessa protezione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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