La mattina del 25 agosto è sembrato che la guerra regionale tanto temuta fosse finalmente scoppiata. Ma alla fine il rumore e il furore dei jet israeliani e delle armi di Hezbollah non sono andati oltre un nuovo scambio di schermaglie, senza degenerare nella guerra totale.

Che ci sia stata un’escalation è innegabile: gli israeliani hanno fatto decollare un centinaio di aerei che hanno bombardato fin dall’alba le postazioni di Hezbollah in Libano. Secondo lo stato ebraico si è trattato di raid preventivi. Il movimento sciita ha risposto lanciando centinaia di razzi, missili e droni verso Israele. Dopo lo scorso 7 ottobre, data che ha segnato l’inizio della nuova fase dello scontro, i due schieramenti non avevano mai mobilitato così tanti mezzi militari.

Eppure l’escalation non è sfociata nella guerra totale. Non ancora e non stavolta, verrebbe da precisare. I belligeranti sono rimasti nella grammatica classica della risposta proporzionata. Da settimane Hezbollah dichiarava di voler rispondere all’omicidio di Fuad Shukr, alto ufficiale del movimento. Ora la promessa è stata mantenuta, senza però innescare una spirale fatale. La tentazione della guerra totale esiste da entrambe le parti. Sul fronte libanese il numero crescente di vittime registrate negli ultimi mesi nei ranghi di Hezbollah alimenta il desiderio di vendetta.

In Israele, di contro, si fanno sentire gli appelli a lanciare un’offensiva generale per stroncare il movimento sciita, anche all’interno del governo. Il ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir (estrema destra) ha attaccato pubblicamente il capo dello Shin bet, i servizi segreti, che aveva sottolineato i rischi di un terrorismo estremista ebraico, invitandolo ad “andare a combattere Hezbollah anziché criticare!”.

Eppure sia il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah sia i vertici di Teheran, dove vengono prese le decisioni più importanti, non sono voluti arrivare a una guerra totale, mentre in Israele Benjamin Netanyahu ha resistito alla tentazione di scatenare un’offensiva massiccia in Libano per distruggere le strutture militari di Hezbollah. La spiegazione è semplice: né Washington né Teheran vogliono questa guerra, e lo fanno capire chiaramente. Ma il confronto non è finito. Anche se il rilancio del 25 agosto non avrà conseguenze irreparabili, niente è ancora risolto.

Il groviglio di crisi in Medio Oriente resta inalterato e senza soluzione, prima di tutto perché la guerra a Gaza prosegue con la sua scia di morte e devastazione. Dal 25 agosto, nonostante la situazione in Libano, i negoziatori si trovano al Cairo per cercare di concordare un cessate il fuoco. Il pessimismo è d’obbligo, perché in questa fase né Hamas né il governo israeliano vogliono deporre le armi. Solo gli statunitensi e i grandi paesi arabi hanno interesse a ottenere una sospensione del conflitto, ma questo non basta.

Poi c’è l’Iran, che ha promesso di rispondere all’assassinio del capo di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso il mese scorso a Teheran, e mantiene alta la suspense.

Gli scontri del 25 agosto ci fanno capire il potenziale devastante della situazione attuale. Il modo migliore di evitare una guerra regionale è quello di fermare gli attacchi a Gaza, ma per il momento la logica della guerra continua a prevalere.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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