La richiesta di un cessate il fuoco di 21 giorni in Libano è arrivata da una coalizione impressionante. Lanciata dalla Francia e dagli Stati Uniti, cioè i due paesi più impegnati da mesi su questo tema, l’iniziativa ha ottenuto il sostegno dell’Unione europea, del Regno Unito, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, ovvero di quasi tutti gli attori che hanno un peso nella regione.

Eppure, malgrado questa mobilitazione, la proposta è stata respinta sia da Hezbollah sia da Israele. Il conflitto è andato avanti anche il 26 settembre, tra bombardamenti israeliani (anche alla periferia di Beirut) e lanci di missili da parte del movimento sciita.

Qual è il motivo di questo fallimento diplomatico, che speriamo essere solo provvisorio? Ci sono tre circostanze che di solito provocano fine delle ostilità: quando le parti coinvolte sono allo stremo, quando una delle due prevale o quando le pressioni internazionali sono impossibili da ignorare. In Libano finora non si è verificata nessuna di queste tre condizioni.

Le ragioni dei due belligeranti sono naturalmente diverse, ma convergono verso il prolungamento di un conflitto che penalizza soprattutto la popolazione libanese inerme.

Hezbollah, movimento sostenuto e armato dall’Iran, è entrato in una fase di conflitto larvale in solidarietà con Hamas a Gaza fin dall’inizio dell’operazione israeliana, successiva all’attacco del 7 ottobre. Nelle ultime due settimane il movimento ha subìto colpi durissimi, con la distruzione di parte delle sue infrastrutture in Libano e la perdita di prestigio a causa della sua incapacità di resistere agli israeliani.

Ma fino a quando a Gaza sarà in corso la guerra, Hezbollah non potrà accettare di deporre le armi. Questa è la logica espressa più volte dal suo capo Hassan Nasrallah. In caso contrario, infatti, il movimento perderebbe la sua ragione di esistere.

La resurrezione di Bibi

Per Israele la logica è diversa. Benjamin Netanyahu ha promesso agli abitanti del nord del paese, sfollati da un anno, che potranno finalmente tornare a casa. Prima che ciò avvenga, però, è necessaria una vittoria totale su Hezbollah, precisamente quello che chiedono gli alleati di estrema destra del primo ministro che lo incitano a dire “no” agli americani.

Netanyahu si è pubblicamente vantato di essere l’unico nello stato ebraico a poter resistere alle pressioni americane, soprattutto quando a Washington comandano i democratici. In questo senso è giusto notare che il sostegno dell’opinione pubblica israeliana all’iniziativa contro Hezbollah è maggiore rispetto a quello per la guerra a Gaza. Per un primo ministro che dopo il 7 ottobre era universalmente disprezzato si tratta di una resurrezione.

Il rischio, per Israele, è quello di lasciarsi dettare la strategia militare dall’opinione pubblica e dagli appelli alla guerra totale. La hubris minaccia lo stato ebraico dopo le operazioni dei giorni scorsi come l’esplosione in massa dei cercapersone in Libano e l’eliminazione dei vertici di Hezbollah.

Tuttavia un’invasione di terra come quella paventata dai capi militari trascinerebbe il paese in un’altra dimensione, molto più pericolosa. Non bisogna dimenticare, infatti, che Hezbollah opererebbe sul proprio territorio. Scegliendo un’escalation permanente, Netanyahu rischierebbe moltissimo, mentre la diplomazia occidentale gli offre risultati minori ma senza pericoli. Il problema è che in mancanza di una pressione internazionale adeguata il primo ministro sceglierà sempre il rilancio della posta. Soprattutto ora che gli israeliani lo sostengono.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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