Quando la fuga di Bashar al Assad era stata appena confermata, tre paesi hanno immediatamente bombardato diverse aree del territorio siriano. Nel contesto ben più spettacolare della caduta di un regime che andava avanti da mezzo secolo questo fatto non ha avuto molto risalto, ma i raid aerei confermano una vecchia realtà: la Siria è un terreno di scontro regionale e la sua sovranità è tutto tranne che garantita.
I tre paesi che hanno bombardato la Siria lo hanno fatto per motivi diversi. Parliamo della Turchia che ha colpito il nordest; degli Stati Uniti, con obiettivi nel centro; e di Israele, che si è concentrata sul sud. Ognuno dei tre stati ha le sue mire e il suo ruolo nei conflitti in corso in Medio Oriente. Senza che ci fosse alcun coordinamento, tutti e tre gli eserciti hanno avuto il riflesso automatico di bombardare il territorio siriano in un momento in cui il paese compie un salto nel vuoto.
La Turchia è il paese che è stato meno sorpreso dall’offensiva lampo che ha causato la caduta di Assad. Alcuni gruppi coinvolti nell’operazione sono infatti controllati da Ankara e non sarebbero intervenuti senza l’autorizzazione del governo turco.
Altrettanto prevedibile è il fatto che la prima mossa della Turchia sia stata quella di inviare l’Esercito siriano libero (che è di fatto un gruppo armato filoturco) in direzione delle zone controllate dai curdi nel nordest della Siria. L’aviazione turca ha bombardato la città di Manbij, controllata finora dalle Forze democratiche siriane (Fds), un gruppo dominato dai curdi. Le vittime sono state numerose.
Il primo giorno dopo la caduta di Assad non è stato un giorno di pace ovunque, e a questo punto è probabile che nel nordest della Siria cresceranno gli scontri. La Turchia di Erdoğan ha denunciato l’influenza del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sui gruppi curdi siriani. Ankara vorrebbe sbarazzarsene o almeno creare una zona cuscinetto alla frontiera di cui il suo esercito e i suoi alleati possano avere il controllo.
La situazione si complica se teniamo conto del fatto che le Fds sono protette dagli Stati Uniti e che circa novecento soldati delle forze speciali americane sono dislocati nella regione. I combattenti curdi hanno partecipato alla lotta contro il gruppo Stato islamico e alla riconquista della capitale Raqqa al fianco degli occidentali. Durante il suo primo mandato, Donald Trump aveva voluto riportare a casa i soldati statunitensi, ma era stato convinto a non farlo dai suoi generali e dai suoi alleati europei.
Da domenica gli Stati Uniti bombardano diverse postazioni del gruppo Stato islamico, che non è stato ancora del tutto debellato. Paradossalmente queste operazioni statunitensi possono essere interpretate come un sostegno ai nuovi padroni della Siria, che non vorrebbero la rinascita di un’organizzazione di cui sono nemici.
Anche il terzo paese, Israele, non ha perso tempo. Lo stato ebraico occupa da domenica alcune postazioni abbandonate dall’esercito siriano sul monte Hermon, alla frontiera con Israele e il Libano. Benjamin Netanyahu ha dichiarato che questa occupazione è difensiva e temporanea. L’Egitto ha vivamente protestato contro questa operazione.
L’aviazione israeliana ha bombardato intensamente obiettivi precisi, a cominciare da un centro di ricerca vicino Damasco, conosciuto per il suo ruolo nel programma di armi chimiche di Assad. Israele approfitta della transizione per distruggere le infrastrutture militari potenzialmente pericolose.
Tra le sfide che attendono le nuove autorità siriane, una delle più complesse sarà quella di ristabilire la sovranità del paese rispetto agli attori stranieri che si comportano come se lo stato siriano non esistesse. Sarà un percorso difficile e pieno di ostacoli.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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