Domenica 8 dicembre, poche ore dopo l’ingresso dei ribelli a Damasco, Abu Mohammed al Jolani, leader del gruppo islamista Hayat tahrir al Sham (Hts) al centro dell’offensiva che ha messo fine al regime di Bashar al Assad, è entrato a sua volta nella capitale siriana. In camicia e pantaloni color cachi, Al Jolani è andato alla maestosa moschea degli Omayyadi, simbolo dell’Islam sunnita e gioiello del patrimonio siriano.
In piedi davanti al mihrab, la nicchia di marmo bianco che indica la direzione della Mecca, il leader quarantenne ha pronunciato un discorso celebrando “una vittoria per la nazione islamica, per i prigionieri, per chi è stato torturato e per coloro che hanno subìto ingiustizie” . Una scena immortalata dai telefoni di una folla di fedeli e curiosi, simbolo dell’ascesa di una figura politica con responsabilità molto pesanti.
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A capo del gruppo ribelle più potente, Al Jolani detiene le chiavi dell’epoca post Assad, o almeno di una sua parte significativa. Dopo aver attraversato la nebulosa jihadista, con la quale sostiene di avere rotto, è stato etichettato come terrorista da diversi governi occidentali. Allo stesso tempo ha creato istituzioni di rara efficacia nel panorama rivoluzionario siriano. Al Jolani incarna sia le speranze sia i pericoli della transizione politica.
Il lato promettente del personaggio è questa offensiva lampo – da Idlib ad Aleppo, e poi Hama, Homs e infine Damasco – portata avanti, per quanto si sa, senza vendette o violenza gratuita. Un’operazione condotta in dodici giorni, scanditi da messaggi attentamente calibrati, volti a rassicurare le minoranze religiose ed etniche siriane, come curdi, cristiani e alawiti, inevitabilmente preoccupate per l’avanzata islamista. “Al Jolani si è comportato in modo impeccabile”, ha detto Jihad Yazigi, direttore del sito Syria Report.
Fino a oggi la disciplina non è stata il punto di forza dei ribelli anti-Assad. I loro combattimenti sono stati spesso caratterizzati da soprusi, divisioni interne e perfino da lotte fratricide. Se lo sbandamento delle truppe regolari, che spesso hanno scelto di non combattere, ha facilitato il compito dell’Hts, la rottura con gli errori del passato non è meno evidente. “La rivoluzione è passata da uno stato di caos e contraddizioni a un sistema più ordinato, sia nel campo civile sia in quello militare ”, ha detto Al Jolani in un’intervista alla statunitense Cnn, quando le sue truppe hanno conquistato Aleppo.
Il suo vero nome, con cui ora firma i comunicati stampa, altra garanzia di moderazione, è Ahmed al Sharaa. È nato a Riyadh, nel 1982, in una famiglia della classe medio alta. Suo padre, un economista impegnato negli ideali della sinistra nazionalista araba, ha lavorato al ministero del petrolio saudita. Il giovane Ahmed è poi cresciuto a Mezzeh, un quartiere ricco e liberale di Damasco, prima di cominciare gli studi di medicina, che non ha mai completato.
Perché nel 2003, in seguito a un indottrinamento politico-religioso, è andato a Baghdad, in Iraq, con l’obiettivo di combattere le truppe statunitensi arrivate a rovesciare Saddam Hussein. Questo impegno lo portò all’arresto e alla prigionia per cinque anni, soprattutto nel sinistro carcere di Abu Ghraib, simbolo degli abusi statunitensi. Dopo il suo rilascio, si è unito al gruppo Stato islamico (Is) in Iraq con il nome di battaglia Abu Mohammed Al Jolani, un riferimento alle alture del Golan, la regione di origine di suo padre.
Nel 2011, quando è scoppiata la rivolta contro Assad, il leader dell’Is, Abu Bakr al Baghdadi, lo ha rimandato in Siria per fondare in quel paese un nuovo gruppo dell’internazionale jihadista. Con sei complici e un assegno di cinquantamila dollari al mese, in poco tempo Al Jolani ha creato una forza armata caratterizzata da metodi molto violenti: il Fronte al nusra. Esperto in operazioni suicide contro basi dell’esercito regolare, si è affermato, nel 2013, come un protagonista dell’insurrezione.
Lo stesso anno Al Jolani ha rotto con al Baghdadi, il futuro autoproclamato califfo dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Ciò non ha impedito agli uomini del Fronte al nusra di cercare d’imporre la sharia nelle zone da loro controllate, lapidare donne accusate di adulterio e schiacciare i gruppi ribelli troppo vicini, secondo loro, agli Stati Uniti. Nel giugno 2015, dopo uno scontro in un villaggio vicino a Idlib, una ventina di drusi sono stati assassinati da combattenti dell’organizzazione. Questo è il lato oscuro di Al Jolani, sulla cui testa Washington ha messo una taglia.
Nel 2016, consapevole che l’etichetta di “terrorista” limitava il suo margine di manovra, ha rotto con Al Qaeda. Ribattezzata Hayat tahrir al Sham, la sua organizzazione rifiuta il jihadismo internazionale, allontana i profili più radicali dalle sue file e si definisce come un movimento rivoluzionario, molto conservatore ovviamente, ma con un’agenda strettamente siriana. Prova di ciò è il cosiddetto governo di salvezza istituito a Idlib. Un esecutivo semi-tecnocratico, agli antipodi del sistema totalitario dell’Is, che ha reso la provincia una di quelle meglio gestite in Siria.
“L’Hts ha realizzato una profonda trasformazione ideologica, fatta imponendo dei vincoli e interagendo con il contesto”, spiega Patrick Haenni, ricercatore dello European university institute, che ha visitato Idlib più volte. “Questo riposizionamento è stato evidente non solo nella comunicazione usata da Al Jolani durante l’offensiva, ma anche, cosa più sorprendente, nel comportamento dei suoi combattenti”.
Il cambiamento ha avuto degli effetti anche sull’aspetto del capo dell’Hts, che si è tagliato la grande barba nera che portava all’inizio della ribellione, ha rinunciato al turbante e ha indossato anche una giacca sportiva per rilasciare un’intervista. “È molto più di un’operazione di pubbliche relazioni ”, spiega il siriano Dareen Khalifa, analista del think tank International crisis group, che ha incontrato Al Jolani. Khalifa descrive “un uomo carismatico, molto attento alle questioni internazionali, la cui rottura con il jihadismo è irreversibile”. Pur riconoscendo che “questo non fa necessariamente di lui un democratico”.
I paesi occidentali, che probabilmente sosterranno l’emergere di una nuova Siria, aspettano per capire. Per il momento non sembra esserci alcuna volontà di rimuovere l’Hts dalla lista delle organizzazioni terroristiche. L’idea è piuttosto quella di usare questa definizione come leva per incoraggiare l’ambizioso Al Jolani a chiarire la sua visione sulla transizione. Un approccio che preoccupa Salam Kawakibi, direttore del Centre arabe de recherches et d’études politiques di Parigi. “Ci sono persone all’interno dell’Hts, una minoranza, che criticano la linea di Al Jolani. Se le grandi capitali si dimostrassero riluttanti ad aprire un dialogo con lui, questo potrebbe indebolirlo e facilitare il ritorno alla ribalta di questi estremisti”.
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