Il sentimento che prevale dopo l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza è il sollievo: per gli ostaggi, di cui 33 (su 98) saranno liberati nella prima fase dopo un calvario di 15 mesi, e soprattutto per la popolazione palestinese, martoriata da una guerra che ha assunto le forme di una vendetta dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre.

È ancora troppo presto per tirare le somme di questa guerra, la più lunga nella storia di Israele. Prima di tutto bisognerà vedere come verrà messa in atto la prima fase dell’accordo, a partire da domenica. Tuttavia, già oggi si possono sottolineare tre elementi. Il primo è il ruolo determinante di Donald Trump, in un momento in cui ancora non è neanche entrato alla Casa Bianca. Il presidente eletto degli Stati Uniti voleva un successo diplomatico immediato e l’ha ottenuto.

La stampa israeliana si chiede perché Benjamin Netanyahu abbia accettato un accordo che gli era stato proposto, pressoché identico, a maggio dell’anno scorso. La risposta è semplice: accettare a maggio avrebbe provocato una crisi politica con i ministri di estrema destra, mentre cedere alle pressioni di Trump rende più accettabile la fine della guerra, anche se lo stato ebraico non ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e l’accordo ha un gusto amaro per i falchi del governo.

Il secondo aspetto rilevante è che per Netanyahu la situazione adesso è piuttosto ambigua. Da un lato il primo ministro ha ottenuto una serie di successi tattici importanti: ha eliminato il capo di Hamas Yahya Sinwar, ha fatto pagare un prezzo enorme ai palestinesi di Gaza per il 7 ottobre e ha distrutto parzialmente la potenza militare del gruppo islamista palestinese.

Ma Netanyahu non ha raggiunto l’obiettivo annunciato inizialmente, quello di debellare completamente Hamas. I componenti dell’organizzazione sono apparsi nuovamente nelle strade la sera del 15 gennaio, nel contesto delle scene di gioia dopo l’annuncio del cessate il fuoco. Sopravvivere era ormai diventato l’obiettivo principale del gruppo. Il primo ministro israeliano ha inoltre accettato di permettere ai palestinesi di tornare nel nord dei Gaza (che sembrava dover restare vuoto) e dovrà trasferire il suo esercito lontano dalle zone abitate, laddove in passato aveva lasciato intendere che la presenza israeliana sarebbe durata anni.

Infine Netanyahu dovrà gestire la delusione dei suoi alleati di estrema destra, che sognavano una ricolonizzazione della Striscia. Questo bilancio sarà al centro di un dibattito.

Terzo elemento d’interesse: se l’accordo sarà applicato in tutte le sue fasi (ed è un grande “se”), l’approccio militare dovrà lasciare il posto a quello politico, con un grande vuoto da riempire. Perché in questo momento il futuro della gestione di Gaza non è ancora deciso e non è stato nemmeno immaginato.

È questa le grande debolezza evidenziata da Netanyahu fin dall’inizio: il primo ministro non ha mai avuto un piano per il “dopo”. Una critica che gli è stata mossa anche dall’ex ministro della difesa Yoav Gallant. Ora questo “dopo” appare più vicino, e la natura tende inevitabilmente a colmare i vuoti. Chi controllerà Gaza, la sua amministrazione, la sua ricostruzione e la sua sicurezza?

Un cessate il fuoco senza prospettive politiche garantisce la ripetizione degli orrori vissuti nella regione. L’assenza di una soluzione, anziché cancellare i problemi, non fa che aggravarli. È questa la lezione di decenni di storia del Medio Oriente, costantemente ignorata.

Di certo, il ruolo della comunità internazionale sarà molto importante per non sprecare questo brandello di speranza. L’intera regione deve assolutamente uscire dalla logica bellica, e il compito di tutte le parti è fare il possibile perché questo accada.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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