Da tre giorni Gaza vive di nuovo l’inferno della guerra. Alla fine i due mesi di cessate il fuoco si sono rivelati solo una parentesi tra bombardamenti israeliani a tappeto e privazioni spietate imposte a due milioni di palestinesi.
Israele, con l’appoggio incondizionato di Donald Trump, accusa Hamas di non aver voluto liberare i 59 ostaggi rimasti nelle mani del gruppo, di cui quelli ancora in vita sarebbero meno della metà. Ma l’accordo per il cessate il fuoco concluso a gennaio prevedeva tre fasi: la prima ha funzionato e ha permesso la liberazione degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, oltre al ritorno degli aiuti umanitari a Gaza.
I negoziati sulla seconda fase, invece, non sono mai neanche cominciati. E così è tornata la guerra, prima attraverso attacchi aerei e poi, dal 20 marzo, anche con operazioni sul campo, con centinaia di morti palestinesi e decine di migliaia di persone costrette di nuovo a fuggire.
La lettura di questi eventi è complicata da una crisi politica interna in Israele, dove una parte della popolazione accusa il primo ministro Benjamin Netanyahu di aver sacrificato gli ostaggi per ragioni personali.
In effetti c’è una coincidenza inquietante tra gli scossoni politici, i problemi giudiziari del premier e la ripresa della guerra, al punto tale che il 20 marzo il presidente dello stato ebraico, Isaac Herzog, ha dichiarato che è ingiusto richiamare i riservisti per mandarli a combattere mentre il governo prende decisioni che spaccano il paese. Una critica diretta a Netanyahu, evidentemente.
Ogni giorno Israele è scosso da grandi manifestazioni di protesta contro la decisione di Netanyahu di licenziare il capo dello Shin bet (i servizi di sicurezza interni) e contro la scelta di riprendere la guerra, ignorando le preoccupazioni per la sicurezza degli ostaggi.
Sullo sfondo, intanto, c’è un nuovo scandalo legato a grandi somme di denaro provenienti dal Qatar che avrebbe coinvolto la squadra del primo ministro. I dettagli della vicenda sono coperti dalla censura, dunque il paese vive tra voci di corridoio e arresti di collaboratori di Netanyahu.
La ripresa della guerra ha consentito al premier di consolidare la propria coalizione con il ritorno del ministro di estrema destra Itamar Ben Gvir, che si era dimesso in occasione dell’annuncio del cessate il fuoco. A questo punto Netanyahu non teme più di essere messo in minoranza nel voto sul bilancio, anche se la sua politica continua a essere fortemente contestata.
Resta da capire quale sia il vero obiettivo della guerra di Netanyahu, al di là delle ragioni personali. Davvero spera di cancellare Hamas, dopo che non sono bastati nemmeno diciotto mesi di guerra totale e l’uccisione di Yahya Sinwar? O forse vuole mettere in atto il piano di Trump per espellere tutti i palestinesi da Gaza per trasformare il territorio devastato in una costa azzurra orientale (malgrado il rifiuto dei paesi arabi di partecipare al progetto)?
Netanyahu può contare sul sostegno di Washington, dunque può permettersi di ignorare le condanne dell’Europa e delle capitali arabe. Ma in questo momento sta ignorando anche la voce di tanti israeliani che, pur non essendo pacifisti, ormai rifiutano una “guerra senza fine” dalle motivazioni sempre più opache.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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