Perché la beneficenza è diventata un elemento strutturale della nostra economia e non è più solo la caratteristica di qualche brava persona? Nel capitalismo di oggi la tendenza è di mescolare profitto e beneficenza. Così quando comprate qualcosa, nella spesa è già incluso il vostro impegno per il bene degli altri, dell’ambiente e così via.
Se pensate che stia esagerando, entrate in un qualunque caffè della catena Starbucks e vedrete. Cito la loro campagna: “Non è solo cosa comprate, ma cosa scegliete”. Lo spiegano così: “Quando comprate Starbucks (…) state scegliendo qualcosa di più di una tazza di caffè. State promuovendo un’etica del caffè. Grazie al programma Starbucks ‘Shared Planet’, compriamo più caffè del commercio equo e solidale di qualunque altra azienda al mondo, garantendo agli agricoltori un prezzo equo per il loro duro lavoro. E investiamo nei metodi dei coltivatori di caffè migliorando la vita delle loro comunità in tutto il mondo. È un buon karma per il caffè”. È quello che chiamo “capitalismo culturale” allo stato puro. Non state solo comprando un caffè, state comprando la vostra redenzione dall’essere semplici consumisti. State facendo qualcosa per l’ambiente, qualcosa per salvare i bambini che hanno fame in Guatemala e qualcosa per ricostruire il senso di comunità.
Scelte difficili
Potrei fare molti esempi, ma la sostanza non cambia: mentre fate delle scelte consumiste, allo stesso tempo spendete i vostri soldi per fare del “bene”. Tutto questo genera una sorta di… come potrei definirlo? Un sovrainvestimento o sovraccarico semantico. Sapete che non è in gioco solo l’acquisto di una tazza di caffè: è in gioco il rispetto di tutta una serie di responsabilità etiche. Questa logica oggi è quasi universalizzata.
Perciò si crea un corto circuito molto interessante: un gesto di consumo egoista comprende il prezzo del suo contrario. Davanti a questo fenomeno, credo che dovremmo tornare al buon vecchio Oscar Wilde, che ci ha fornito l’argomentazione migliore contro la logica della beneficenza. In L’anima dell’uomo sotto il socialismo, lo scrittore sottolinea che “è molto più facile solidarizzare con la sofferenza che con il pensiero”: “Le persone scoprono di essere circondate da una spaventosa povertà, da una spaventosa bruttezza, da una spaventosa fame. È inevitabile che tutto ciò le commuova. Di conseguenza, con intenzioni ammirevoli ma male indirizzate, con la massima serietà e molto sentimentalismo, si impegnano nel compito di rimediare ai mali che vedono. Ma i loro rimedi non curano la malattia, non fanno che prolungarla.
Di fatto, i loro rimedi sono parte della malattia. Cercano di risolvere il problema della povertà, per esempio, tenendo in vita i poveri o, nel caso di una scuola molto avanzata, divertendoli. Ma questa non è una soluzione, è un aggravamento del problema. L’obiettivo giusto è cercare di ricostruire la società su basi che rendano impossibile la povertà. E le virtù altruistiche hanno di fatto impedito il raggiungimento di questo obiettivo. […] I peggiori schiavisti erano quelli che si comportavano gentilmente con i loro schiavi, e così impedivano che l’orrore del sistema fosse compreso da coloro che soffrivano per sua colpa e da coloro che lo osservavano. […] La beneficenza degrada e demoralizza. È immorale usare la proprietà privata per alleviare i mali orribili causati dall’istituzione della proprietà privata”.
Rischio ipocrisia
Penso che queste parole siano più attuali che mai. Per quanto possa apparire positivo, il salario garantito – questa specie di patto con i ricchi – non è una soluzione. A mio giudizio esiste un altro problema. Ho l’impressione che questo sia l’ultimo, disperato tentativo di mettere il capitalismo al servizio del socialismo: non cancelliamo il male, lasciamo che sia il male stesso a lavorare per il bene. Trenta o quarant’anni fa, sognavamo il socialismo dal volto umano. Oggi, invece, l’orizzonte più lontano, più radicale, della nostra immaginazione è il capitalismo globale dal volto umano. Le regole del gioco restano le stesse, però lo rendiamo un po’ più umano, più tollerante, con un po’ di welfare in più.
Diamo al diavolo quel che è del diavolo e diciamolo chiaramente: almeno negli ultimi decenni, e almeno in Europa occidentale, in nessun altro momento della storia umana una percentuale così alta di popolazione ha goduto di tanta relativa libertà, ricchezza, sicurezza eccetera. Ora queste conquiste sono gradualmente rimesse in discussione. Voglio solo dire che l’unico modo per salvare gli acclamati valori del liberalismo è fare qualcosa di più. Non sono contrario alla beneficenza in astratto. È meglio di niente. Però dobbiamo essere consapevoli che contiene un elemento di ipocrisia. È ovvio che dobbiamo aiutare i bambini. È terribile vedere che la vita di un bambino può essere distrutta perché i genitori non possono pagare un’operazione che costa 20 dollari. Ma come avrebbe detto Oscar Wilde, a lungo andare, se ci limitiamo a curare i bambini loro vivranno un po’ meglio però si ritroveranno sempre nella stessa situazione.
*Traduzione di Giuseppina Cavallo.
Internazionale, numero 869, 22 ottobre 2010*
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