La crisi legata alla pandemia del covid-19 renderà più rapida la fine della globalizzazione liberista e farà emergere un nuovo modello più equo? È possibile, ma nulla è scontato. In questo momento la priorità è capire le dimensioni della crisi e fare di tutto per evitare il peggio. Ricordiamoci delle previsioni dei modelli epidemiologici. Senza un intervento, il covid-19 avrebbe potuto provocare la morte di circa quaranta milioni di persone nel mondo, di cui quattrocentomila in Francia, cioè circa lo 0,6 per cento della popolazione (nel mondo ci sono più di sette miliardi di abitanti, in Francia quasi settanta milioni). Pressappoco un anno di mortalità supplementare (in Francia ogni anno ci sono 550mila morti, nel mondo 55 milioni). In pratica questo significa che, per le regioni più colpite dal virus, nei momenti più critici il numero di bare avrebbe potuto essere tra cinque e dieci volte più alto del normale, come purtroppo è successo in alcuni focolai italiani.

Per quanto incerte, queste previsioni hanno convinto i governi che non si trattava di una semplice influenza, e che bisognava far stare le persone a casa. Nessuno sa quante saranno le perdite umane e quante avrebbero potuto essere senza il confinamento. Gli epidemiologi sperano che il bilancio finale sia di dieci o venti volte più contenuto rispetto alle previsioni, ma ci sono grandi incertezze. Secondo il rapporto pubblicato dall’Imperial college di Londra il 27 marzo, solo test di massa e isolamento delle persone contagiate permetteranno di ridurre le perdite. In altre parole, il confinamento da solo non basterà a evitare il peggio.

Senza un reddito minimo garantito presto i più poveri dovranno uscire di casa per cercare lavoro, e questo rilancerà l’epidemia

L’unico precedente storico a cui possiamo fare riferimento è quello dell’influenza spagnola del 1918-1920, che provocò quasi cinquanta milioni di morti nel mondo, il 2 per cento della popolazione dell’epoca. Usando i dati anagrafici, i ricercatori hanno dimostrato che dietro la mortalità media si celavano immense disparità: tra lo 0,5 per cento e l’1 per cento negli Stati Uniti contro il 3 per cento in Indonesia e in Sudafrica, e più del 5 per cento in India. È questo che dovrebbe preoccuparci: la pandemia potrebbe toccare i punti più alti nei paesi poveri, dove i sistemi sanitari non sono in grado di reggere l’urto, tanto più dopo le politiche d’austerità imposte dall’ideologia dominante degli ultimi decenni.

Applicare il confinamento in sistemi fragili potrebbe rivelarsi quasi inefficace. Senza un reddito minimo garantito presto i più poveri dovranno uscire di casa per cercare lavoro, e questo rilancerà l’epidemia. In India il confinamento è consistito nel cacciare dalle città i migranti e le persone provenienti dalla campagna. Ci sono state violenze e spostamenti di massa, che potrebbero favorire la diffusione del virus. Per evitare un’ecatombe abbiamo bisogno di uno stato sociale, non di uno stato carcerario. Nell’urgenza le spese sociali potranno essere finanziate con prestiti e con l’emissione di nuova moneta.

In Africa occidentale questa è l’occasione di ripensare la nuova valuta comune e di metterla al servizio di uno sviluppo fondato sugli investimenti nei giovani e nelle infrastrutture, e non al servizio dei capitali dei più ricchi. Il tutto dovrà fondarsi su un’architettura democratica più compiuta rispetto all’opacità che vige tuttora nell’eurozona, dove ci si allieta in riunioni tra ministri delle finanze a porte chiuse, con la stessa inefficacia dimostrata ai tempi della crisi finanziaria.

Il nuovo stato sociale richiederà una tassazione equa e un registro finanziario internazionale, per obbligare i ricchi e le grandi aziende a contribuire. Il regime attuale di libera circolazione del capitale, istituito a partire dagli anni ottanta e novanta sotto l’influenza dei paesi ricchi (e in particolare dell’Europa), favorisce l’evasione dei miliardari e delle multinazionali di tutto il mondo e impedisce alle fragili strutture fiscali dei paesi poveri di sviluppare imposte giuste, e questo rende più fragile la costruzione dello stato.

La crisi può essere anche l’occasione di pensare a una rendita sanitaria e scolastica minima per tutti, finanziata da un diritto universale su una parte del gettito fiscale a carico delle persone più ricche: grandi aziende, famiglie ad alto reddito e grandi patrimoni (per esempio l’1 per cento più ricco del mondo). Dopo tutto il loro benessere si basa su un sistema economico mondiale. Ci vuole quindi una regolamentazione globale per assicurarne la sostenibilità sociale ed ecologica.
Per permettere una simile trasformazione dovremo rimettere in discussione molte cose. Per esempio, il presidente francese Emmanuel Macron e quello statunitense Donald Trump sono pronti ad annullare i regali fiscali che hanno concesso ai più ricchi all’inizio del loro mandato? La risposta dipenderà dalla mobilitazione delle opposizioni e delle maggioranze politiche. Ma una cosa è certa: i grandi sconvolgimenti politico-ideologici sono appena cominciati.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1354 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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