Le attività del settore bancario cipriota valgono circa otto volte il pil dell’isola. Le autorità di Nicosia hanno lasciato che alcune banche nazionali attirassero molti depositi dall’estero, in particolare dalla Grecia e dalla Russia, trascurando la provenienza di questi capitali. Inoltre, hanno lasciato che le banche si esponessero pesantemente al debito pubblico greco, subendo poi un contraccolpo quando il valore dei titoli di stato di Atene è stato decurtato di oltre il 50 per cento. Insomma, siamo di fronte all’ennesimo caso di mancata supervisione bancaria. Il piano di salvataggio da dieci miliardi approvato dall’Eurogruppo (i ministri finanziari dell’eurozona), ma poi bocciato dal parlamento cipriota, non era di per sé sbagliato nel tentativo di coinvolgere il settore privato.
È una misura necessaria per evitare l’azzardo morale e per limitare i costi dei salvataggi per i contribuenti. Il punto è che questo coinvolgimento dovrebbe avvenire all’interno di regole chiare e uniformi, che diano certezza agli investitori e non penalizzino i risparmiatori, rischiando di causare una fuga dagli sportelli. È necessario accelerare le tappe verso l’unione bancaria europea. E disporre di un’autorità europea che si occupi di applicarle. Solo così si eviterà l’improvvisazione che ha caratterizzato gli interventi di salvataggio.
Peccato che il cammino verso l’unione bancaria, dopo il rapido avvio del 2012, sia rallentato. L’Europa prende decisioni risolutive solo quando ha una pistola puntata alla tempia. Presto rischia di avercela di nuovo.
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