È una piovosa domenica pomeriggio, vado in un cinema per vedere The brutalist. So che è un film lungo, quindi ho scelto un luogo confortevole, mangiato il mio spuntino durante le pubblicità prima dell’inizio, ed eccomi sistemata in tutta comodità per le ore successive.
Le luci si abbassano e comincia il film. Sullo schermo Adrien Brody – diventato famoso con Il pianista, mentre qui interpreta un tormentato architetto – appare nell’oscurità. C’è un clima di tensione e ansia, e io scruto attraverso la penombra per cercare d’interpretare questa scena iniziale. A quel punto arriva una maschera con un hamburger enorme e delle patatine fritte per l’uomo seduto accanto a me. Il tizio si sforza di capire come fare a mangiare hamburger e patatine al buio. Lo sento anche masticare rumorosamente. Continuo a strizzare gli occhi per guardare lo schermo.
A un certo punto sussurra alla moglie: “Non ce la faccio più. Troppo cibo”. Si china verso di me. “Vuole un po’ di patatine fritte?”. Non sono sicura di voler finire le patatine di un perfetto sconosciuto che ha infilato ripetutamente la stessa mano nel sacchetto di carta e in bocca. “No, sono a posto, grazie”, mormoro, e costringo la mia attenzione a tornare al film. Passano due ore, arriva l’intervallo.
Ordino una tazza di tè. Anche tutti gli altri prendono qualcosa. Poi facciamo la fila per il bagno e torniamo di corsa ai nostri posti mentre ricomincia il film. Siamo di nuovo al buio, ma stavolta Adrien Brody e sua moglie, interpretata da Felicity Jones, sono a letto che tentano di fare sesso. La maschera mi dà la tazza di tè. Poi ricompare con altre due, che suppongo siano per la coppia accanto a me: gliele passo. Sullo schermo il sesso si sta rivelando un po’ insoddisfacente, e viene detto qualcosa che non riesco a sentire. “Abbiamo ordinato solo una tazza”, dice il mio vicino. Me ne ripassa una e io la do debitamente alla maschera.
Passano pochi secondi, e la maschera torna, questa volta con una pizza. È per una persona seduta al centro della fila. Quindi, scusandosi, scavalca me e i miei vicini, mentre io allungo il collo per riuscire a vedere lo schermo, dove il sesso continua a non andare granché bene. L’addetto mi passa di nuovo addosso, ancora con la pizza saldamente in mano, e a questo punto non so se ridere o piangere per il ridicolo della situazione.
Da quel che ho letto ho avuto l’impressione che il regista, Brady Corbet, ha preso piuttosto seriamente questo suo film, e immagino che il suo sogno non fosse quello di farcelo vedere in un ristorante affollato. Sono uscita dal cinema con delle sensazioni contrastanti, impressionata da gran parte del film, frustrata dalle circostanze della visione.
Continuando sul filone delle candidature all’Oscar, la sera seguente vado a un concerto intitolato A complete unknown. Non si tratta però del film con Timothée Chalamet (che ho visto e adorato), è un evento al Moth club di Hackney, a Londra, con giovani artisti che interpretano le canzoni di Bob Dylan.
Prima Nina Winder-Lind e la sua band eseguono frettolosamente delle versioni punk-garage di alcune canzoni di Blonde on blonde. Poi è il momento del “Dylan acustico”, con Clara Mann e gli Spitzer Space Telescope che eseguono It ain’t me babe, evocando gli spiriti di Joan Baez e di Dylan davanti ai nostri occhi, e infine lasciandoci a bocca aperta con Don’t think twice, it’s alright, Who killed Davey Moore? e A hard rain’s a-gonna fall.
Alla fine compaiono i Brown Horse con una serie di strumenti elettrici. Con mia grande gioia, aprono con Like a rolling stone, il riff di organo risuona come un grido nella sala, tutto il pubblico canta, ed è un vero momento di euforia collettiva. Quando finiscono, qualcuno doverosamente grida “Giuda!”, e qualcuno doverosamente risponde “Non ti credo”.
Sono lì con mio figlio di 23 anni e la maggior parte delle persone nel pubblico è più vicina alla sua età che alla mia, e anche questo è molto piacevole. Mi avvio a piedi sotto la pioggia di Hackney per prendere il treno e tornare a casa, pensando alle due esperienze di pubblico che ho vissuto nelle ultime 24 ore, e a come non potrebbero essere più diverse tra loro.
E penso che a conti fatti preferisco sentire un pubblico che canta invece che un pubblico che mangia.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
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