Alfonso Molina, esule dal Cile di Pinochet e ora professore di strategie dell’innovazione a Edimburgo, ha scritto un libro che meriterebbe d’essere tradotto in italiano. Raccoglie e rilancia le esperienze mondiali di uso delle tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione per sviluppare nelle scuole l’apprendimento personalizzato, e l’inclusione e la preparazione a una vita democratica partecipata.

L’idea torna nei contributi di psicologi e statistici in Il mondodomani, periodico dell’Unicef Italia. E la newsletter Adi ospita un saggio di Robert Hawkins, specialista per l’istruzione della Banca mondiale, che illustra le potenzialità nell’uso educativo delle tecnologie digitali.

Queste prospettive possono diventare realtà, se gli insegnanti vogliono, anche nelle immense plaghe del sottosviluppo mondiale e in paesi con una scuola nei guai come Grecia, Italia e aree deprivate degli Stati Uniti, oltre che nei paesi con scuole efficienti, dal Regno Unito alla Finlandia. Guardiamo con speranza a queste prospettive.

Ma nel nocciolo ideale non sono inedite: attualizzano gli ideali educativi di chi nel novecento, come John Dewey o Freinet o Vygotskij, ha spiegato l’errore secolare e perdurante di mettere al centro l’insegnare, la classe, il preside, i programmi, il ministro e non, invece, le fatiche di chi apprende e cresce in intelligenza, conoscenza, capacità critiche mentre si apre a scoprire, oltre le pareti delle aule (se ci sono), “una scuola grande quanto il mondo”. Che oggi è a portata di telefonino.

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