Tarek Alameddine è un ragazzone dai modi amichevoli che viene da un piccolo villaggio sui monti dello Chouf, in Libano. Dopo essersi diplomato alla scuola di cucina non voleva preparare dei noiosi piatti in stile francese. Ha fatto domanda due volte per lavorare al Noma di Copenaghen (allora il miglior ristorante al mondo), prima di essere accettato. Lo chef di Noma, il minuto e geniale chef macedone-danese René Redzepi, inventore della new nordic cuisine, gli disse: “Un libanese! Non ne abbiamo mai avuto uno!”.

Alameddine era diventato un maestro nel maneggiare le pinze da cucina e nella difficile arte d’impiattare pietanze come le ants in a branch (formiche su un ramo). E aveva anche creato dei piatti originali dai sapori levantini tradizionali, per esempio sciogliendo della panna nel burro caramellato e facendola cuocere a fuoco lento per tre giorni, una cosa che aveva stupito il personale cosmopolita delle cucine del Noma. Poi ci aveva cotto dentro delle quaglie.

Noma ha chiuso i battenti all’inizio di quest’anno. Comincerà un nuovo capitolo della sua esistenza, in un nuovo spazio, entro il 2017, ma questa primavera Redzepi ha trasferito i suoi chef in Messico per esplorare gli ingredienti e i metodi di cottura messicani tradizionali in un ristorante temporaneo tra la giungla e la costa caraibica.

Tradizioni antiche
Ho incontrato Alameddine mentre si trovava in Libano per un paio di settimane, stretto tra l’inverno danese e i tropici. “Ci hanno appena mandato un’email dicendoci di portarci dei pantaloncini corti in valigia”, mi ha detto ridendo. Stavamo percorrendo la costa diretti da Beirut aTripoli, nel nord, dove Alameddine dava alcuni corsi di cucina.

Era entusiasta dei luoghi nei quali era cresciuto e si lamentava del fatto che i prodotti libanesi non fossero maggiormente apprezzati nel mondo.

“Ah, i pomodori selvatici estivi”, mi ha detto unendo le mani per farmi capire le dimensioni che possono raggiungere. “Ne apri uno con le mani e lo riempi di aglio, sommaco, araq e ghiaccio e lo lasci riposare per un po’. È una tradizione della domenica, quando la gente si siede e beve, è così che si fa in ogni casa”.

“Come un bloody mary delle montagne”, ho risposto.

Le donne del corso di cucina avevano tutte perso dei familiari o la loro casa durante la guerra civile siriana o nel corso dei numerosi scontri tra alawiti e milizie sunnite a Tripoli. Erano state messe in contatto tra loro da Souk el Tayeb, un’associazione libanese nata come mercato di contadini e che oggi è cresciuta fino a includere ristoranti e progetti di formazione in tutto il paese. L’idea era che le donne imparassero a trasformare le loro capacità culinarie casalinghe in un talento che gli permettesse di trovare un lavoro. Fatto più importante, era un modo per incoraggiare persone che nella guerra si trovavano in schieramenti opposti a condividere le loro storie e uno stesso obiettivo.

L’atmosfera era di animato cameratismo. Le donne si avvicinavano per raccontarmi le loro storie

Il corso era organizzato nel restaurato khan, o caravanserraglio, di Tripoli e siamo stati accolti da un gruppo di donne di mezz’età sedute in semicerchio, vestite con vari strati d’indumenti neri: veli, vestaglie e scialli. Due avevano il capo scoperto, una indossava un velo che copriva tutto il viso. Le prime volte il clima era teso ma ora, dopo varie settimane, le barriere erano cadute ed erano nate delle amicizie. Alameddine ha promesso che gli avrebbe insegnato a cucinare piatti semplici con ingredienti poco costosi: pasta fresca e una mousse dolce di limone e rosmarino. La donna alawita senza velo si è messa una rete per coprire i capelli, poi tutte quante hanno indossato guanti monouso e hanno cominciato animatamente a rompere le uova e ad armeggiare con le scodelle.

Yalla!
Le donne osservavano attentamente Alameddine mentre, con le dita, mescolava le uova e l’olio nella farina per creare l’impasto della pasta. Conoscevano quella secca, ma erano curiose di osservare quella fresca. Lui gli ha mostrato come lavorare l’impasto con la macchina per la pasta. Poi ha cominciato a tenere d’occhio la creazione delle torte. “Sbattete le uova, sì, con le mani! No, avreste dovuto aggiungere dopo lo zucchero, in questo modo l’impasto è più pesante e difficile da montare”.

L’atmosfera era di animato cameratismo. Una barretta di sesamo è rimasta attaccata alla carta forno, ma Alameddine è riuscito a staccarne via un pezzo. In mezzo a quest’agitazione, le donne si avvicinavano per raccontarmi le loro storie. Un marito che aveva perso un occhio e non poteva lavorare perché aveva ancora dei frammenti di proiettili nel fegato. Un figlio con una ferita alla testa. La fuga da Homs nel 2012. Un marito rapito in Siria e del quale non c’erano notizie. Le loro labbra tremavano, ma poi, con un battito di mani, hanno esclamato: “Yalla, avanti! Possiamo togliere l’impasto dal forno?”.

Dopo un paio d’ore, abbiamo fatto una pausa caffè in cortile. Le donne si abbracciavano con affetto, una di loro elencava con le dita della mano i suoi quattro figli, mentre un’altra, più anziana e vestita con un cardigan blu, diceva “mi sono sposata a 14 anni e ho avuto dieci figli!”.

“Nel mio villaggio in Siria”, ricordava una donna, “esiste una specie di laban, di yogurt, che facciamo con il latte di pecora bruciato. Lo bolliamo in un pentolino di rame e facciamo appositamente bruciare lo strato superiore, per dargli un sapore di caramello”.

Alameddine ha soffiato sulle braci di un braciere, chiedendo che il burro fosse estratto dal congelatore. Stava per mostrare loro come creare del burro e dell’acqua affumicati, emulsionandoli per creare un condimento per la pasta. Anche io lo seguivo con attenzione. Si trattava di una cosa innovativa, che non avevo mai visto fare.

Tarek ha disposto dei ramoscelli bagnati sul fuoco per sprigionare del fumo, creando una sorta di tenda con una casseruola rovesciata e della stagnola. “Dieci o 15 minuti, non di più o diventerà amara. Allontanatela dal calore, se necessario. Il burro si ammorbidirà un po’, ma non deve fondersi”. Una scodella d’acqua è stata messa in infusione allo stesso modo. Le donne erano interessate: erano abituate ad affumicare la carne, ma questa era una cosa diversa. Una donna ha detto che sua madre talvolta metteva nello stufato un pezzo di carbone avvolto in un fazzoletto, per dargli un sapore affumicato.

Dolci madri
In cucina Alameddine ha fatto scaldare l’acqua affumicata fino a sessanta gradi e ci ha mescolato dentro il burro, che è montato come maionese e ha preso un sapore divino. Lo ha poi usato per condire la pasta insieme ad alcune manciate di semi di zucca. Abbiamo pranzato fuori. La torta era glassata con ganache di cioccolato e decorata con fiori gialli selvatici, che una delle donne aveva colto lì vicino. Tutti hanno ringraziato Tarek per il suo entusiasmo.

Ho pensato alle rotte degli aerei che formano degli archi sulle mappe: da un villaggio sulle montagne ai ristoranti migliori, cambiando gusti e tecniche, aveva fatto il giro completo, tornando a casa e alla cucina di casa sua. Lui mi ha sorriso. “Queste donne sono divertenti, così piene di energia. Io sono druso, ho una religione diversa e vengo da un’altra parte del paese, quindi anche loro mi hanno aiutato a conoscere persone diverse. Sono cose che ti aiutano a pensare in maniera differente”.

Le donne hanno intonato una canzone tradizionale: “Dolci madri, adorate, dio vi protegga”. Cantavano all’unisono e tutte conoscevano le parole.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è apparso nella rubrica Matters of taste della rivista Prospect.

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