Il 3 gennaio la crisi in Iraq ha raggiunto il suo apice, quando un attacco aereo statunitense ha ucciso il comandante iraniano Qassem Suleimani, generale dei Guardiani della rivoluzione, mentre si dirigeva all’aeroporto di Baghdad. Nel raid è morto anche il militare iracheno Abu Mahdi al Muhandis, vicecomandante delle milizie note come Forze di mobilitazione popolare. Il 4 gennaio il parlamento iracheno terrà una sessione urgente per discutere di quella che il governo in carica definisce una pericolosa interferenza nei confronti della “sovranità nazionale”.

L’operazione statunitense è stata una rappresaglia alla manifestazione delle milizie filoiraniane Kataib Hezbollah, che alcuni giorni fa avevano fatto irruzione all’ambasciata statunitense di Baghdad dando fuoco ad alcune sale di ricevimento. La protesta era stata a sua volta una reazione al bombardamento statunitense di una base militare irachena nella quale erano morti 25 membri delle milizie sciite. Dopo mesi di proteste antigovernative e contro l’influenza iraniana in Iraq, cinque attacchi aerei sono bastati a indirizzare la rabbia popolare dall’altra parte, verso la presenza statunitense in Iraq.

Alcune questioni aperte
Rispetto all’attacco all’ambasciata statunitense a Baghdad restano aperte alcune questioni. Come ha fatto un numero così grande di manifestanti a entrare nella Zona verde senza che le forze di sicurezza ufficiali, che hanno il compito di proteggere il palazzo del governo, il parlamento e molte ambasciate straniere, abbiano sparato un colpo? Almeno la metà dei manifestanti indossava uniformi militari. Tra le persone che hanno partecipato all’irruzione c’erano anche quattro leader politici di partiti presenti in parlamento, compreso il capo della sicurezza nazionale, Faleh Fayadh.

Tra piazza Tahrir e la Zona verde (ai lati opposti del ponte Jumhuriyya) c’è un chilometro di distanza. L’incidente era così vicino che i manifestanti di piazza Tahrir riuscivano a vedere l’ambasciata statunitense dal quattordicesimo piano del Ristorante turco, il palazzo occupato dall’inizio delle proteste. I manifestanti considerano la crisi un modo di distogliere l’attenzione dall’altro lato del ponte. La guerra tra Stati Uniti e Iran sembra sia già cominciata, ma sul suolo iracheno. Una guerra utile a risolvere tre problemi: le pressioni subite dal presidente statunitense Donald Trump per il procedimento di impeachment, quelle subite dal governo iraniano durante la nuova ondata di proteste e quelle sul governo dell’Iraq, dove le manifestazioni si sono diffuse in dieci città.

Spingere la situazione sull’orlo di una guerra è spesso la miglior soluzione ai problemi interni. Ma la risposta dei manifestanti in piazza Tahrir è stata chiara: “Questa guerra non ci riguarda. Sappiamo chi c’è dietro. Le nostre richieste sono sempre le stesse: un nuovo primo ministro indipendente fino alle elezioni anticipate”.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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