Il catalogo di Tyler, the Creator traccia un bel viaggio. Partito come una specie di troll del rap, l’enigmatico artista californiano ha trascorso la seconda metà della carriera dimostrando quanto sia sorprendentemente sensibile. È come se dicesse: “Posso prendere questa cosa sul serio e farla meglio di tutti voi”. Il suo nuovo album Chromakopia dimostra che ne è davvero capace. Se Igor è stato il suo esperimento concettuale e Call me if you get lost la reintroduzione più accessibile al suo personaggio, Chromakopia sta nel mezzo. Sulla copertina dell’album Il musicista indossa una maschera, ma passa i 53 minuti disco facendo di tutto per togliersela. Dopo l’introduzione sbruffona di St. Chroma, Tyler continua a esplorare vari angoli della sua psiche: la lussuria, la paura e le origini dei sentimenti. La presenza materna si percepisce in tutti i brani, mentre voci femminili offrono sboccate perle di saggezza. In Tomorrow la madre lo implora di darle un nipote, e in Like him è sbalordita da quanto somigli a suo padre. In Noid emerge la paranoia, mentre in Hey Jane il rapper riflette sulla paternità. L’ultimo brano, I hope you find your way home, si chiude con un appello a vivere in modo onesto. “Sono orgogliosa di te”, dice una voce femminile in lacrime. Poi, mentre la canzone svanisce, il canto di Chromakopia torna, riportando gli ascoltatori all’inizio e suggerendo che la crescita è un ciclo continuo. Tyler sta maturando a modo suo e in questo percorso farà ogni sforzo per togliersi la maschera.
Jonah Krueger, Consequence of Sound
I Cure si portano benissimo i loro quarantacinque anni di carriera, a partire dall’estetica e dalla voce di Robert Smith. Ma la cosa più importante è quanto gli importa ancora di quello che fanno. La lunga gestazione di Songs of a lost world è il risultato del loro perfezionismo: alcune canzoni risalgono a una decina d’anni fa. Questa è solo la seconda volta nella storia del gruppo britannico che un album è stato scritto completamente dal frontman. Il lavoro è stato ispirato da perdite personali del musicista: il dolore è denso e non c’è spazio per qualcosa di simile a Friday I’m in love. Il contrasto tra romanticismo e horror in pezzi come All I ever am è la chiave dei momenti migliori del disco, che fin dall’inizio richiama a una certa malinconia. La mortalità è il tema portante di questi paesaggi. Songs of a lost world è il lavoro migliore dei Cure dai tempi del governo Thatcher. Smith dice che sono avanzate canzoni per altri due album. Se gli dedicheranno la stessa cura che hanno riservato a questo, i loro fan saranno molto contenti.
Joshua Mills, The Line of Best Fit
Straordinariamente dotata dalla prima infanzia, la statunitense Amy Beach (1867-1944) ha lottato contro molti ostacoli per tutta la vita. Oggi la pianista Jennifer Fichet, autrice anche del bel libretto che accompagna questo disco, ne difende la musica con il brio e il fervore di un’interprete al servizio di un’opera e di una donna. È un repertorio di brevi pezzi a cui non mancano mai l’originalità e il carattere. Lo stile ogni tanto ricorda Grieg e i suoi elfi, come in Fireflies, ma spesso è anche lisztiano negli slanci eroici che Fichet, capace anche di trovare le finezze più affettuose, gestisce con forza. L’opera più lunga sono le Variazioni su un tema balcanico, dove Beach trova un modo per fare un pezzo grande con tanti più piccoli, una composizione tanto equilibrata quanto ricca d’immaginazione. The old chapel ha un’atmosfera lunare e la Cradle song of the lonely mother è tutto tranne che infantile nella sua audace malinconia. Farewell summer è una gavotta piena di umorismo e le foglie di Dancing leaves svolazzano nel vento con spirito. Amy Beach aveva trovato il suo stile, e oggi in Jennifer Fichet ha incontrato un’amica.
Isabelle Werck, Classica
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