Nel disco di Generic Animal (nome d’arte di Luca Galizia) Il canto dell’asino (esce per la Tempesta) ci sono tante idee, a volte un po’ compresse e incerte per una singola canzone, ma ben venga il fresco azzardo. L’album condivide l’amore per il sincretismo con il disco italiano più convincente dell’anno, Nevermind the tempo del supergruppo I Hate My Village. Sono due progetti musicali distanti anni luce per timbri e matrici sonore di riferimento: Galizia saccheggia l’emo statunitense e la grammatica riconoscibile dell’italo-trap, ma propone anche scarti elettronici e rnb godibili come in Stare 2 (Stare 1 pare uscita dalla sala prove di Justin Vernon), anche perché Galizia ha una scrittura orientata alla costruzione di senso, cosa che gli riesce bene tanto più si allontana dalla micro-fotografia e dal micro-diario.
Il canto dell’asino è bello quando inventa personaggi, trasfigurazioni di un sé che fa una musica non sempre vendibile e che viene insultato da un coglione vestito da Batman. Il flusso di coscienza non è sempre aderente a un artista che finisce i suoi vent’anni, come proiezione continua verso cose che stanno da un’altra parte. Al lavoro con il produttore veneziano Yakamoto Kotzuga e con un featuring di Marta Del Grandi, altra luce di questi anni, Galizia ha un talento non da zero figure, in un tenero calco dall’inglese per indicare la scarsa tendenza a fare cassa. La catchiness di Luca Galizia è evidente, si acchiappa e ci acchiappa con un’intelligenza melodica che ci meritiamo: un grazie è dovuto. Staccandosi più da sé andrà lontano. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati