Il quartiere Cita di Marghera, il 21 aprile 2015. (Federico Floriani)

Lo scorso 8 gennaio, la ministra per lo sviluppo economico Federica Guidi ha firmato un accordo di programma per Porto Marghera da 153 milioni di euro. Con lei c’erano il presidente della regione Veneto Luca Zaia, il commissario straordinario del comune di Venezia Vittorio Zappalorto e il presidente dell’autorità portuale di Venezia Paolo Costa. Per chi si interessa di cose veneziane, un annuncio del genere potrà sembrare un déjà vu, l’ennesimo richiamo al “rilancio di Porta Marghera”, una frase diventata negli anni un ritornello da campagna elettorale, un buon proposito a cui raramente segue un’azione concreta. Le cose, almeno questa volta, potrebbero andare diversamente e il piano sembra destinato ad avere conseguenze reali nell’area, per un motivo piuttosto banale: i soldi ci sono veramente.

È difficile spiegare Porto Marghera a chi non l’ha mai visto: è quell’enorme insieme di fabbriche, capannoni, ciminiere e fumi che si scorge alla vostra destra percorrendo il ponte della Libertà in direzione di Venezia. E, ovviamente, è alla vostra sinistra lasciando la città, a fungere da contraltare postindustriale all’ex Serenissima e alle sue antichità.

Ma Porto Marghera è altro: è il polo industriale nato nel 1917 – a ridosso della prima guerra mondiale – che convertì in pochi decenni buona parte del Veneto dal settore primario a quello secondario; è il porto grazie al quale migliaia di persone conobbero per la prima volta il posto fisso, recandosi in fabbrica dalle campagne in bicicletta o con la filovia; ma è anche il movimento operaio locale, con le bandiere della Fiom che ancora oggi si scorgono fuori dalle fabbriche; e, infine, è la catena di morti e malattie causate dall’amianto, dei prepensionamenti forzati diventati prassi per migliaia di persone, tutti ex operai ignari della portata omicida del materiale che maneggiavano.

Porto Marghera è, insomma, un’enorme ragnatela di aree industriali e ciminiere con una posizione privilegiata nella laguna di Venezia, patrimonio dell’Umanità, una cosina che diventò uno dei più importanti poli chimici d’Europa e toccò nel 1971 il record storico di impiegati (35.724), prima di lasciarsi andare a un lento ma progressivo tramonto.

Come ogni tragedia, il progetto nacque da un’esigenza e da una mancanza, quella di un porto. Alla fine dell’ottocento, mentre l’Italia settentrionale conosceva un tardivo boom industriale tra Torino e Milano, Venezia fu collegata alla terraferma con il ponte ferroviario (“che unisce il continente a Venezia”, come dicono gli isolani, cronicamente egocentrici): per la prima volta nella storia, Venezia poteva essere raggiunta con un mezzo diverso da quelli nautici, una novità che dovette sembrare blasfema a qualche vecchio conservatore locale. C’era però qualcosa che mancava alla città, una mancanza pesante e imbarazzante per l’ex regina dei mari: un porto moderno. Che andava costruito al più presto.

Non mancarono i problemi. Tra tutti quello politico, rappresentato dall’impero austroungarico, all’epoca ancora padrone della regione, che prediligeva Trieste alla città veneta a causa di un’antica rivalità che si era conclusa con una regalia napoleonica.

Al di là del ponte ferroviario, quindi, non ci furono molti altri tentativi di rilanciare l’area, per quanto le iniziative non mancassero, come racconta lo storico Sergio Barizza: citando il caso di Giuseppe Jappelli, autore di un piano per il prolungamento del ponte ferroviario “fino alla punta della Salute per attrezzare le strutture portuali lungo la Riva delle Zattere” (esiste forse un universo parallelo in cui questo progetto è stato realizzato; noi siamo capitati nell’universo parallelo delle grandi navi).

La vista da via dell’Azoto, il 21 aprile 2015. (Federico Floriani)

Fu invece l’idea del 1867 di Pietro Paleocapa ad avere la meglio, almeno per qualche anno: il suo porto commerciale nella sacca di Santa Marta ebbe un parto travagliato (fu inaugurato solo nel 1880), creò enormi disagi e parecchie vittime sul lavoro, ma sembrava destinato a diventare il porto di Venezia, piccolo ma comodo. Nata già vecchia, l’opera non era preparata all’aumento del commercio di petrolio e carbone né all’arrivo di navi a pescaggio sempre più grande (un problema che ritroveremo a breve), tanto che si era già alla ricerca di un rimpiazzo di quella zona, che oggi i veneziani chiamano semplicemente “Marittima”.

Cominciò quindi una nuova bizzarra stagione in cui architetti e specialisti provarono a risolvere il dilemma del porto senza ancora uscire da Venezia, con risultati spesso assurdi: chi propose di puntare sul sestriere di Cannaregio, a nord, chi ideò un prolungamento della Marittima, chi puntò su un banchinamento della Giudecca, la grande isola a sud (vedi l’immagine). Solo all’inizio del novecento ci si rese contro dell’orribile verità: Venezia avrebbe dovuto costruire il suo porto al di fuori di Venezia.

Mar ghe gera

Quel “fuori da Venezia” si rivelò un’ampia zona costiera a est della città, un luogo che oggi chiamiamo Marghera, anche se non sappiamo il perché. La sola storia del toponimo è intricata quanto quella industriale e val la pena d’essere raccontata. Una diffusa leggenda al limite con il mito afferma che il nome Marghera derivi dalla frase “mar ghe gera” (“il mare che c’era”), visto che era stata strappata pochi secoli prima dalla laguna. Non è così.

Prima della costruzione del porto l’area era già conosciuta come i Bottenighi (paludosa e disabitata, era un insieme di barene e canali scavati nel trecento dai veneziani per deviare le acque del Brenta dalla laguna), mentre il nome Marghera (o Malghera, non è chiaro) apparteneva a un villaggio che sorgeva poco più in là – nei pressi del parco San Giuliano di Mestre. Tale villaggio fu demolito dai francesi (in seguito dagli austroungarici) dopo la caduta della Repubblica Veneta nel 1797 per fare posto a una base militare, che prese il nome di Forte Marghera. Così il nome del forte (oggi demilitarizzato, pieno di localini e bellissimo) prese a indicare tutta quella zona che aveva la faccia tosta di affacciarsi su Venezia.

Dunque da dove viene veramente il nome Marghera? Spiace rompere la magia del “mare che c’era” ma la teoria più solida sembra quella dello storico veneziano Wladimiro Dorigo, che sosteneva derivasse da maceria, termine latino con cui si definivano i muri a secco usati per dividere i possedimenti terrieri.

Maceria o mar che c’era che sia, tra il 1920 e il 1950 si sviluppò così la prima area industriale di Porto Marghera (qui una mappa).

Un insieme di insediature, pontili e aree industriali attraversate da lunghe ferrovie – ora ruderi rimasti a rovinare gli pneumatici delle automobili – in un azzeccato connubio tra mare e terra, navi e treni. La sua nascita coincise inoltre con la reinvenzione del comune e la sua espansione, cominciata proprio per legare questa zona alla città: per non far risultare i Bottenighi come parte del comune di Mestre si decise infatti di unire Mestre, Venezia e altri paesi limitrofi in un unico grande comune – una mossa lesta e puramente politica i cui strascichi arrivano fino a oggi con un ampio fronte cittadino che vuole “l’indipendenza” di Mestre dalla laguna.

I primissimi anni venti di Marghera non furono dominati solo dal porto: dall’altra parte di via Fratelli Bandiera, limite della prima area industriale, oggi strada a quattro corsie che fa da spartiacque tra la cittadina e le industrie spesso dismesse, nacque una piccola utopia che durerà poco lasciando alle sue spalle un’altra idea di Marghera, oggi malconcia. Qui, nel 1922, su progetto di Pietro Emilio Emmer, cominciò la costruzione della parte residenziale dell’area sul modello della “città-giardino” teorizzata nel corso dell’ottocento dall’inglese Ebenezer Howard. La sua variante veneziana doveva sorgere su un territorio ampio e poco abitato ma attraversato da grandi strade attorno alle quali, sognava Emmer, sarebbe sorta una città immersa nel verde fatta di case basse, popolari ma dignitose, lontana dalla speculazione edilizia e dalla quale bandire le villette a schiera, prototipo abitativo in cui ciascun cittadino ha il suo pezzo di verde e si dimentica di quello comune.

Emmer mirava a un giardino incastrato in un paese, un paese immerso nel verde di tutti, come da modello di Letchworth, località poco fuori Londra e prima città-giardino della storia. Il sogno durò poco e la città-giardino non fu mai completata: presto il suo ideale sarebbe stato corroso da palazzoni-quartiere come quelli della “Cita”, che ancora oggi dà il primo benvenuto ai turisti in uscita dalla tangenziale, trasformando la locuzione “Marghera città-giardino” da piano urbanistico a tragico ossimoro.

Ancora oggi, visitandone il centro, si può notare una struttura cittadina particolare, fatta di viali piuttosto ampi e quartierini popolari invasi dal verde, per quanto invecchiati male. Un panorama inaspettato a chiunque conosca Marghera per i suoi palazzoni affacciati sulla tangenziale e le sue ciminiere: “Marghera sensa fabriche saria più sana / ‘na jungla de panoce, pomodori e marijuana”, nelle parole di sir Oliver Skardy.

Nel 1971 ci fu il picco occupazionale e cominciò un declino la cui parabola diventò ripida a partire dagli anni ottanta

Dopo la prima zona industriale, sorta tra il 1920 e il 1950, nacque la seconda tra il 1953 e il 1958, più grande della precedente, e nel 1963, con una fretta sospetta, fu pianificata la terza, ancora più estesa, nelle aree a sud di Fusina.

Sono i decenni del petrolchimico, che aprì la zona a un settore industriale diverso, pesante, cambiando per sempre Porto Marghera, la sua funzione e la sua percezione agli occhi del pubblico (gli anni in cui la parola petrolchimico diventò quasi sinonimo del tutto).

Nel 1971, come detto, ci fu il picco occupazionale e cominciò un declino la cui parabola diventò ripida a partire dagli anni ottanta, un momento storico in cui, come ha scritto il candidato consigliere regionale in quota cinque stelle Anthony Candiello nel volume Marghera 2009. Dopo l’industrializzazione, “nel nostro Paese è successo qualcosa che ha modificato (compromettendola) l’evoluzione” del porto, l’inizio di “una strategia di conservazione, tesa a mantenere l’esistente, ridurre gli effetti immediati sull’occupazione e al contempo a richiedere investimenti contenuti alle imprese. Comoda per la dirigenza, accettabile per il sindacato, gestibile per le amministrazioni locali ma pericolosa sul piano economico”, specie in termini di rinnovamento industriale dell’area.

Gli ottanta sono soprattutto gli anni della fallimentare fusione tra Eni e Montedison, uno dei tanti errori causati da una logica furbetta di conservazione, un’attenzione allo status quo che ha minato le possibilità di sviluppo ed evoluzione di Marghera in un decennio in cui il mondo cambiò radicalmente.

Marghera non se ne accorse o fece finta di non notarlo. È più o meno a questo punto, trent’anni fa, che il ritornello “bisogna rilanciare Marghera” diventò ubìquo. Un’agonia lenta che, secondo la storica Laura Cerasi, autrice di Perdonare Marghera (Franco Angeli 2007), trova il suo punto di svolta nel nuovo millennio, la sera del 28 novembre 2002, quando “uno sversamento di peci clorurate nel reparto Td5 dell’azienda Dow Chemical, all’interno dell’area del Petrolchimico […] generò un incidente vicino a un serbatoio di fosgene, gas letale anche se inalato in piccole quantità”.

Quattro operai ne uscirono intossicati, ma, fortunatamente, non si verificò alcun incendio, che “avrebbe ucciso parte della popolazione di Marghera, Mestre, Venezia e del territorio contermine”. All’epoca ero un ragazzino, l’undici settembre era passato da poco più di un anno; ricordo la paranoia del terrorismo scorrere tra le persone, come un riflesso condizionato. Ma Al Qaeda, si seppe poco dopo, non c’entrava: era solo il caro e vecchio petrolchimico. Ricordo un surreale senso di sollievo che dimostra quanto il pericolo chimico, per chi vive a qualche chilometro da Porto Marghera, sia sempre stato una minaccia familiare, inevitabile. Respirabile.

Ed ecco quindi l’accordo di programma dell’8 gennaio scorso, giunto dopo tutto questo, dopo centinaia di scioperi, dopo la prima indagine epidemiologica del 1975, dopo i tumori, le centinaia di morti, i rilanci e i fallimenti. Su tutto, poi, il mantra: “Bisogna rilanciare Marghera”.

Uno scheletro industriale dietro il Vega - Parco scientifico e tecnologico di Venezia, il 21 aprile 2015. (Federico Floriani)

“Marghera ha rischiato di morire di accordi”, ha osservato Paolo Costa, ex ministro dei lavori pubblici del governo Prodi (1996-1998), parlamentare europeo, ex sindaco di Venezia e ora capo della potente autorità portuale di Venezia (Apv). “In fondo Porto Marghera nacque sfruttando manodopera e risorse energetiche a basso costo. Alla base di tutto, però, c’è la vicinanza al mare, la vera ‘miniera’ del polo industriale”.

Oggi però manodopera ed energia a prezzi bassi non ci sono più; resta la vicinanza al mare, da gestire in modo diverso: “Marghera – ma lo stesso fenomeno si sta verificando in tutto il mondo – si sta muovendo verso il porto-centrismo”, prosegue Costa. L’accordo in questione prevede infatti enormi investimenti nel campo logistico: nuovi collegamenti ferroviari e autostradali, 15 milioni di euro per la viabilità d’accesso della prima zona industriale, nuovi autoparchi (un milione di euro), un collegamento stradale tra la SR11 e via dell’Elettricità (tre milioni).

L’accordo

“Non è un piano difensivo”, secondo Costa, e questo sarebbe il suo maggiore pregio: si abbandona la conservazione dello status quo e la salvaguardia delle grandi industrie qui presenti, “tra tutte l’Eni”, e in uno scenario industriale in cui la produzione di merci è stata trasferita altrove, a Marghera viene concessa una piccola grande speranza rappresentata dal concetto di hub: meno produzione e più logistica, puntare sulla creazione di un enorme snodo di smistamento su cui puntare per una riconversione industriale alla chimica fine e verde. In una frase, passare dall’industria pesante che ha sempre interessato la zona (ancora quella parola: petrolchimico) a una basata sulla manifattura e sui servizi.

Stefano Soriani si occupa di porti di lavoro. È il direttore del master in port economics and management dell’università Ca’ Foscari di Venezia e da tempo segue l’inevitabile questione rilancio-di-Porto-Marghera. “Possiamo dire che l’accordo di programma è arrivato tardi, certo”, precisa subito, “ma meglio tardi che mai, perché la situazione di Marghera è così complicata e il contesto nazionale così difficile che il fatto che si sia stretto l’accordo in tempi relativamente rapidi è di per sé una cosa positiva. Perché dalla fine degli anni novanta, quando la zona fu classificata d’interesse nazionale, ci sono stati accordi che hanno riguardato spesso le bonifiche”, interventi necessari per salvare il sito e la laguna veneta su cui si affaccia, gemma dell’Unesco trattata per anni come discarica abusiva.

“Cos’ha questo accordo di programma di diverso? Qui si stanziano dei soldi che davvero ci sono e gli obiettivi sono indicati molto chiaramente. Il piano, poi, è molto orientato al livello economico: si parla marginalmente di bonifiche e soprattutto di interventi di sicurezza idraulica, miglioramento del sistema di gestione ambientale e soprattutto di trasporti e infrastrutture”.

La città-giardino vista da una delle quattro “torri” che dominano il quartiere Cita, il 21 aprile 2015. (Federico Floriani)

L’obiettivo è la “rigenerazione economica del polo”, un’enorme conversione industriale che lo aggiorni al ventunesimo secolo. Rilevante poi il ruolo dell’autorità portuale di Venezia, “che sta puntando molto sul banchinamento sponda sud e sull’area MonteSyndial”.

Perché proprio quest’area? Che cos’ha la MonteSyndial di così importante da ritrovarsi al centro di un piano da 153 milioni di euro? Non è un mistero così insondabile: la soluzione giace in un altro progetto – questo non ancora approvato e non incluso nell’accordo – a cui molti, tra tutti Paolo Costa, tengono molto. Un progetto che, secondo l’autorità portuale, potrebbe davvero cambiare il destino di Marghera. E di Venezia.

Fuori da Venezia, fuori dalla laguna

La laguna di Venezia è un luogo angusto e poco accessibile, tutte caratteristiche per cui fu scelta nel quarto secolo dopo Cristo come riparo disperato da chi scappava dalle orde barbariche che terrorizzarono l’attuale nordest (su tutte le città di Aquileia e Concordia Sagittaria, l’attuale Portogruaro).

Dopo essersi riparati a Torcello e in altre isole e imparato a seminare il terreno fangoso di lunghi pali di legno con cui sostenere abitazioni e chiese, i profughi potevano ormai dirsi stanziali e piuttosto ricchi grazie al commercio del sale.

Cominciarono così a fraternizzare con il territorio, loro unica salvezza: risalgono al quinto secolo i primi insediamenti tra le isole della laguna nella zona di Rivo Alto, la futura Rialto, il cuore di Venezia. I motivi che portarono allo sbocciare della repubblica marinara – la difesa garantita dalla laguna, le strette bocche di porto facilmente difendibili, la vicinanza all’Europa continentale e, al tempo stesso, la sua proiezione verso il lontano oriente – si ripresentano oggi in una combinazione di problemi e opportunità.

Il progetto del porto offshore mira ad aggirare i primi per sfruttare i secondi: su carta, l’opera proposta consisterà di una diga foranea lunga 4,2 chilometri da costruire a otto miglia al largo della costa, ovvero in mare aperto, dove sorgeranno un terminal petrolifero e un terminal container a cui potranno approdare le grandi navi container sempre più diffuse nei porti asiatici e nordeuropei. Qui saranno scaricate e caricate grazie a un sistema ad alta automazione.

E che c’entra la MonteSyndial, infilata com’è a Marghera, con il mare aperto? Per capirlo, bisogna tornare al rapporto tra terraferma, laguna e mare aperto, le tre colonne su cui Venezia sbocciò tra le barene. L’offshore garantirebbe una maggiore libertà di movimento per imbarcazioni giganti, dando al porto veneziano l’opportunità unica nell’Adriatico di commerciare con l’oriente – come da antico copione – e alla laguna di fare da ponte con la terraferma. La pianura padana, l’Europa del nord, l’Europa dell’est.

Ma è proprio necessario costruire un porto offshore?

Il problema è il gigantismo navale ma, almeno in questo caso, non stiamo parlando della questione “grandi navi” che attraversano placide e giganti il bacino San Marco. Ci riferiamo piuttosto al fenomeno per cui le navi container diventano sempre più grandi: poiché il trasporto navale è una delle chiavi del mercato globale le imbarcazioni devono muoversi su acque con pescaggio sempre più profondo.

Teu è una sigla importante per il settore, l’unità di misura standard per le navi cargo: un Teu (twenty-foot equivalent unit) è la capacità di volume di un container lungo sei metri.

La centrale termoelettrica Enel Andrea Palladio di Fusina, il 21 aprile 2015. (Federico Floriani)

Il porto di Venezia, con i suoi fondali a 12 metri, può accogliere imbarcazioni al massimo da settemila Teu, mentre lo shipping mondiale si basa ora su mostri da diciottomila Teu (quelli da ventiduemila Teu sono in costruzione, e sono il futuro).

È per questo che, secondo Costa, Venezia deve – per la prima volta nella sua storia millenaria – cercare la sua salvezza fuori dalla laguna, dove i fondali arrivano intorno ai 20 metri. Arrivando qui, i cargo potranno essere “trascinati” da enormi chiatte semisommergibili dette mama vessell, un termine illustrato da questo video.

Ma tutto questo deve ancora succedere, per quanto il sito dell’autorità portuale ne parli come fosse già realtà, e non faccia nemmeno parte dell’accordo di programma. Ciononostante Marghera e l’offshore sono due elementi collegati, mosse tattiche che si inseriscono in un campo, quello dei porti dell’alto Adriatico, piuttosto affollato.

Dall’Asia al Baltico

La storia ricorda la sfida tra Genova e Venezia, le due Serenissime del Mediterraneo. Il ventunesimo secolo, dalle parti dell’Adriatico, vede invece la battaglia tra Venezia e Trieste. Il cuore della questione si chiama Ten-T, un progetto dell’Unione Europea che mira alla creazione (o al miglioramento) di corridoi commerciali per gli scambi nel continente.

Come ai tempi di Marco Polo e la via della seta, Venezia e tutto l’alto Adriatico (un’area che va idealmente da Ravenna a Rijeka, l’ex Fiume) rappresentano la porta ideale per il sudest asiatico in pieno boom economico per entrare nell’Europa continentale. Per questo le autorità portuali di queste città hanno fondato un ente, il Napa (North Adriatic ports association) che comprende Venezia, Trieste e i porti croati di Koper e Rijeka (Ravenna ha abbandonato il progetto).

Insieme, i quattro cavalieri del Napa dovrebbero prepararsi ai traffici che provengono dal Medio Oriente e dall’Asia, sfruttando il canale di Suez. Dovrebbero. Perché la tendenza a fare da soli rischia di rendere vano il messaggio comunitario dell’associazione. Ed è un problema, secondo Soriani, perché “i porti adriatici hanno tutto – pescaggio, aree, infrastrutture – se vengono esaminati come un unicum. Ma nella realtà tutti questi elementi sono disaccorpati: Venezia ha grandissime aree e buone infrastrutture ma non ha fondali adeguati, come abbiamo visto; lo stesso si può dire di Ravenna; mentre Trieste e Koper (Capodistria) hanno ottima accessibilità naturale (20-24 m di pescaggio) ma una severa scarsità d’aree su cui trattare i container”.

Potete quindi immaginare come la proposta dell’offshore veneziano sia stata accolta a Trieste. Debora Serracchiani, governatrice del Friuli-Venezia Giulia e vicesegretaria del Partito democratico, ha bocciato più volte l’idea, ricordando l’importanza delle “sinergie tra i porti dell’altro Adriatico” e, in un recente incontro con il candidato sindaco per il comune di Venezia Felice Casson ha ribadito il concetto. Lo stesso Casson sembra molto cauto riguardo la questione, ricordando che “il piano finanziario per il porto offshore prevede tempi di rientro lunghissimi per gli investitori. Non so chi possa avere voglia di metterci i soldi”.

La questione dei privati è sicuramente il focus del tutto: Costa sostiene di poterli trovare facilmente, i suoi critici sembrano più scettici e tendono a ricordare quel che è successo con l’ultima grande opera costruita da queste parti, il Mose (il sistema di chiuse nato per difendere la città dall’acqua alta), e la “tangentopoli veneta” che ne scaturì. Ognuno ha il suo cavallo nella corsa e, precisa Suriani, “l’approccio di Costa è diverso, si basa su Venezia e la sua situazione, sui suoi fondali di 12 metri e sul Mose stesso la cui definitiva attivazione condizionerà ulteriormente l’attività portuale”.

L’offshore, secondo Costa, “non è un’opera ma una strategia”. Non l’unica possibile, ovviamente.

Secondo il professor Suriani, per esempio, non c’è nulla che costringa Venezia a diventare un hub delle dimensioni sognate dall’accordo di programma e dall’autorità portuale.

È un atteggiamento “che qualcuno potrebbe definire rinunciatario ma che vale la pena considerare”, secondo lo studioso, visto che non è obbligatorio trasformare Marghera in una piccola Rotterdam. Trieste potrebbe ampliarsi e Genova continuare a essere il grande porto del nord Italia mentre Venezia “potrebbe rimanere con la crocieristica e un porto commerciale-industriale piccolo-medio per navi che possono entrare in laguna”. Una proposta rinunciataria, forse, ma, ancora peggio, destinata a essere piegata dallo zeitgeist mondiale, che ha da tempo sposato il gigantismo navale.

Comunque vadano le cose, adesso ci sono l’accordo di programma e la generale riconversione di Porto Marghera. L’offshore, progetto che ha avuto ottimi riconoscimenti all’estero, seguirà. Forse. Il futuro di Marghera, ancora una volta, ha il gusto del ricatto: bisogna fare qualcosa per non sprecare il potenziale logistico dell’area e non essere tagliati fuori – dai turchi, attivissimi nel Mediterraneo, o dai croati, che già sono cresciuti moltissimo. Il rischio è l’isolamento causato da una rivoluzione nelle tecniche commerciali e il vecchio piacere del difendere lo status quo – tutte cose che Venezia visse dal seicento in poi, quando la colonizzazione del nuovo mondo riscrisse le rotte commerciali. Sappiamo tutti come andò a finire.

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