Con la fine del Ramadan si è chiusa anche la stagione televisiva per eccellenza, quella a cui l’industria dei mezzi d’informazione arabi lavora per tutta la durata dell’anno. Il 2015 è stato caratterizzato da un segno malinconico, a tratti disperato, che non si vedeva da tempo sugli schermi arabi, e che è lo specchio della situazione politica (ed esistenziale) del Medio Oriente contemporaneo.

Tra un immancabile talk show di cucina, un programma di preghiera e spot che invogliano a comprare succhi di frutta colorati, carne halal, dolci e formaggi, nelle tv arabe quest’anno sono spuntate anche inquietanti videocartoline di campi profughi e barche stracolme di gente in fuga dalla guerra. Non nel formato news che affolla i nostri schermi, ma nell’elaborazione a creativa delle musalsalat, le serie televisive di trenta puntate – una per ogni giorno di digiuno – che sono il piatto forte dell’abbuffata televisiva serale.

Ci sono almeno due di queste serie tv, entrambe di produzione siriana, che raccontano in una sorta di real time surreale la disperazione degli sfollati siriani nei luoghi in cui trovano un primo rifugio dopo essere scappati dal loro paese: la Turchia e il Libano.

La prima odissea televisiva a puntate s’intitola Wajiah wa amakin (Volti e luoghi) ed è diretta dal padre della fiction televisiva siriana, il regista Haitham Hakki, attualmente in esilio in Francia. È il suo primo lavoro televisivo dal marzo 2011; nel frattempo Hakki ha partecipato attivamente al dibattito su ciò che accade nel suo paese scrivendo numerosi articoli sulla stampa panaraba.

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La prima parte di Volti e luoghi è composta da tre capitoli, ognuno ambientato in un’area diversa del paese e firmato da scrittori diversi, tra cui Khaled Khalifa, autore di Elogio dell’odio (Bompiani).

Il film rende in modo magistrale la crisi dell’élite damascena, colta e istruita, divisa di fronte alle prime manifestazioni di piazza del marzo 2011. Hakki appartiene a questa élite e la sa raccontare: sa quanti dei suoi amici e colleghi si sono trovati di fronte alla scelta tra la tirannia e la libertà, il silenzio o il rischio di morte ed esilio.

Sa quanti intellettuali siriani hanno voltato le spalle alla piazza, alle sue richieste non solo di libertà, ma anche di giustizia sociale e dignità, per rinchiudersi nella torre d’avorio della complicità silenziosa con il regime. Sebbene Hakki abbia scelto la strada opposta, il suo lavoro televisivo è una precisa e struggente descrizione delle élite siriane, indecise se restare al fianco di un potere ingiusto e corrotto, che però garantisce privilegi e benefici, e anche un apparente laicismo.

La tragedia attuale della Siria e dei siriani è talmente dolorosa da spingere a alla nostalgia per i decenni precedenti, come sembra suggerire l’altro lavoro di fiction real time andato in onda in questo Ramadan 2015, Ghadan naltaqi (Ci incontreremo domani), diretto da Rami Hanna e scritto da Iyad Abu Shamat. Ci incontreremo domani era il titolo di uno show televisivo molto famoso in Siria: un programma che tutti guardavano, anche se non tutti lo amavano. Era l’evento televisivo che metteva insieme età, classi sociali e appartenenze religiose diverse, in una specie di fittizia unità nazionale.

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Come per evocare quell’unità, questa fiction di Ramadan ambientata in un campo profughi improvvisato in Libano sceglie il nome di quel programma televisivo per raccontare una Siria che non c’è più.

La giovane protagonista di Ci incontreremo domani, una rifugiata siriana che sopravvive lavando i cadaveri dei suoi connazionali che non ce l’hanno fatta e seppellendoli secondo il rito islamico, è la metafora di quella Siria.

Il suo amore è conteso tra due fratelli: il primo è un poeta che appoggia la rivolta antiregime, ma in maniera intellettuale, estetica, senza mai contribuire attivamente sul campo; l’altro è un conservatore, favorevole alla stabilità garantita dallo statu quo, più per la paura di ciò che potrebbe venire che per reale convinzione politica.

Entrambi amano la stessa donna, la stessa Siria. Entrambi finiscono in un campo profughi dove tutti i siriani, che siano favorevoli al regime o alla rivoluzione, sono costretti a vivere insieme, nella stessa miseria, nella stessa disperazione.

Uniti dallo stesso destino, come accadeva una volta nel programma dei bei tempi andati, come accade oggi, più realisticamente, su una barchetta in balia delle onde nel tentativo disperato di arrivare dall’altra parte, dove “tutto è pulito”. Dove “possiamo ricominciare daccapo”, come dice la protagonista della serie nella puntata finale.

La rivediamo nell’ultima scena, in un paesino tranquillo e ordinato, sulla riva del mare, mentre guarda nostalgica l’orizzonte e, in un francese stentato, ripete: “Mi chi-a-mo Wardeh… so-no si-ria-na… mi pia-ccio-no il tabbouleh e la dan-za”.

Chissà se la Merkel e i leader europei, i partiti razzisti e xenofobi, noi e il nostro egoismo quotidiano che si sente depredato dei suoi piccoli privilegi dalle ondate di disperazione in arrivo dal mare, riconosceremo mai questa nuova Siria che prova a imparare una nuova vita al di là della Siria. Chissà se “ci incontreremo domani”.

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