A casa, un odore acre di bruciato invade la cucina, il corridoio e la camera da letto. Mi rendo conto che sono le stanze dove ho lasciato i vestiti che indossavo domenica 3 settembre, dopo una giornata a camminare tra cenere, fuliggine e fumo. Con il fotografo Antonio Di Cecco siamo stati nella valle Peligna, a Roccacasale, Pratola Peligna, Pacentro, Raiano, Prezza, Secinaro, lo scenario dell’ultima ondata di incendi di origine dolosa che ha colpito l’Abruzzo. Dopo due settimane di fiamme, alla fine è arrivata la pioggia a spegnere il rogo più grande scoppiato sul monte Morrone, la montagna dove c’è l’eremo di papa Celestino V.
L’accesso alla montagna però è vietato. Ci sono volanti per ogni carrareccia che risale valloni e coste. Anche la strada per l’eremo di sant’Onofrio è sbarrata. Dal comune di Pratola Peligna ci dicono di andare a chiedere un permesso ai vigili del fuoco; i vigili del fuoco ci dicono che deve prima essere revocata l’ordinanza del sindaco. C’è un clima di stanchezza, come dopo una tragedia, si cerca il giusto contegno per leccarsi le ferite.
Raggiungiamo Paterno e poi Prezza per scattare foto e parlare con gli abitanti. I discorsi si somigliano un po’ ovunque: c’è chi parla della mancanza totale di prevenzione; chi pensa che dietro i roghi ci siano i pastori, che appiccherebbero il fuoco per rendere i pascoli più fertili; chi sospetta che siano stati i vigili del fuoco volontari, come in Sicilia; chi allunga i sospetti sulle ditte private che gestiscono i Canadair e quelle che si occuperanno del rimboschimento; c’è anche chi pensa che le guardie forestali appiccherebbero il fuoco per protestare contro la riforma voluta dalla ministra Marianna Madia, che ingloba il corpo forestale nell’arma dei carabinieri. Nessuno parla di roghi nati per caso. C’è rabbia. C’è confusione. Tutti pensano che gli inneschi siano stati costruiti e piazzati da professionisti, che dietro ci possa essere un disegno criminale e che bisogna trovare i colpevoli.
Lasciamo l’auto sul ciglio della strada al valico di Sella, tra Goriano Sicoli e Raiano, e ci inerpichiamo lungo un sentiero appena visibile. Le fiamme si sono fermate poco prima dell’asfalto, lo scenario colpisce per la sua crudezza. Sulla costa annerita restano scheletri d’albero carbonizzati, braccia di cespugli bianche e fragilissime, poche altre piante d’un verde ormai spento.
A terra è pieno di pigne annerite, ma spostandole si scopre che il lato inferiore è ancora marrone. A distanza quasi regolare, sulle terrazze rimboschite nel dopoguerra, ci sono buchi simili per larghezza e profondità. Chiamo Antonio che sta scattando delle altre fotografie e insieme guardiamo in questi buchi: ci accorgiamo che è quel che resta degli alberi, mangiati dal fuoco fino alle radici.
Camminando sul manto d’erba bruciato, superiamo paletti di plastica squagliati, bottiglie e immondizia incenerite, un albero bruciato solo a metà, un grillo sopravvissuto che salta solitario.
Vicino a Secinaro, dove l’incendio ha lambito il paese, la scena che ci troviamo davanti è diversa dalle molte viste finora. Sullo sfondo nero della collina arsa sono rimaste impresse le sagome cineree di decine e decine di tronchi, quasi come delle scalfitture sulla terra: è come se fossimo di fronte al negativo di una fotografia.
Prima che le fiamme divorassero gli alberi e il nero colorasse queste terre, qui dominava il verde. Mercoledì 30 agosto ho visto questi colori cambiare sotto i miei occhi. Ho trascorso il pomeriggio a Pratola Peligna con i vigili del fuoco. Il direttore delle operazioni di spegnimento Giuseppe Rapagna e la sindaca Antonella Di Nino coordinavano le operazioni dei volontari via terra e i lanci di tre Canadair. Le fiamme erano lontane, eppure all’alzarsi del vento se ne sentiva il rumore, come davanti a un camino.
Sono arrivato nel momento in cui i Canadair sono andati a fare rifornimento. Avrebbero dovuto impiegarci quaranta minuti, ma sono tornati dopo due ore e l’idea di bloccare l’incendio in un vallone è sfumata. Una sessantina di persone tra volontari della protezione civile, uomini dell’esercito, alpini e vigili del fuoco nel frattempo hanno dovuto ritirarsi perché era diventato troppo rischioso. In un’ora le fiamme alte decine di metri avevano raggiunto e minacciavano il rifugio del Colle delle Vacche – fortunatamente scampato all’incendio.
I Canadair hanno effettuato 92 lanci di 5.600 litri di acqua, ma neanche questo è bastato a contenere un incendio così vasto. Intanto, verso Roccacasale, si vedevano altre decine di focolai. Nonostante l’evidente impegno, in tutta l’area regnava un’atmosfera d’impotenza.
Quelli nella valle Peligna sono solo gli ultimi incendi che questa estate hanno segnato l’Abruzzo. I comuni colpiti sono 160 su 305, il risarcimento chiesto allo stato ammonta a 371 milioni di euro – e non è ancora la cifra definitiva. Gli ettari di vegetazione bruciati sono più di cinquemila, nel parco nazionale della Majella è andato in fumo circa il 5 per cento della superficie. Sul Gran Sasso un incendio è scoppiato a causa di un barbecue incustodito e da Fonte Vetica in pochi giorni ha consumato più di mille ettari di parco, valicando la catena montuosa e arrivando vicino a uno dei punti di distacco della valanga che lo scorso 18 gennaio ha travolto l’hotel Rigopiano, uccidendo 29 persone.
Se questi numeri fanno pensare che il problema degli incendi riguardi solo l’Abruzzo, ci si sbaglia. Secondo Eva Valese, ricercatrice specializzata in ecologia del fuoco all’università di Padova, in Italia gli ettari di territorio boschivo colpito dalle fiamme nei primi sette mesi del 2017 sono stati 77.585. Tra il 2008 e il 2016, erano stati 20mila in media all’anno. Questa estate l’Italia ha raggiunto un triste primato: è il primo paese in Europa per numero di incendi boschivi, e se si considerano le estensioni di terra bruciata è seconda solo al Portogallo.
Secondo Legambiente, oltre alla siccità causata dai cambiamenti climatici, la scarsa prevenzione e i pochi controlli, le cause di questa emergenza sono da imputare ai ritardi nell’approvazione e nell’aggiornamento dei piani antincendio: “Governo, regioni e comuni si assumano le loro responsabilità e assolvano ai già troppi ritardi accumulati fino a ora”, dice Stefano Ciafani, direttore dell’associazione ambientalista.
Risalendo le coste arse, si resta incantati dalle montagne che cingono la valle Peligna. Nei giorni in cui le fiamme si ingrossavano, lupi, cervi e caprioli sono scappati sulla statale per mettersi in salvo. E anche le aquile reali e i falchi pellegrini sono volati via. La genzianella, il timo, i faggi e gli abeti in molte zone non sono che un ricordo. Al loro posto oggi ci sono cenere e carbone, e chissà per quanto tempo ancora. Chissà se ce ne ricorderemo l’estate prossima, se sarà stato fatto tutto quello che c’è bisogno per prevenire gli incendi e fermare i piromani, o se parleremo ancora di emergenza.
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