È il 2009. Tiziana Manfredi e Marco Lena, viaggiatori appassionati dell’Africa occidentale, dove lavorano come videoreporter, si trovano nei vecchi locali del ministero dell’informazione e delle telecomunicazioni di Dakar, oggi abbandonati, per chiedere un permesso di riprese. Ingannando l’attesa, curiosano in giro e casualmente trovano una stanza con la porta aperta. Un raggio di sole trafigge una pila di vecchie pellicole cinematografiche dimenticate su polverosi scaffali. “Una visione quasi mistica”, ricorda a distanza di dodici anni Manfredi, che svelò ai due fortunati girovaghi liguri il mistero di una miniera inesplorata: l’archivio audiovisivo senegalese.

Nel frattempo il dicastero ha cambiato nome ed è diventato ministero della cultura e delle comunicazioni. Dopo lunghi anni di progettazione e incontri, Marco e Tiziana riescono a stringere un determinante sodalizio con le istituzioni senegalesi, oltre a una sincera amicizia con Hugues Diaz, ex capo della direzione della cinematografia senegalese (la Dci, oggi guidata da Germaine Coly).

Nel 2019, in tempo record, Diaz adibisce un laboratorio per la conservazione e il restauro delle pellicole senegalesi, affidandolo all’associazione culturale MamiWata, composta da Lena, Manfredi e la produttrice culturale Ndèye Mané Touré, amica di lunga data. Il progetto – che prevede il recupero fisico della memoria visiva senegalese, il suo restauro, la formazione di nuove figure professionali e la valorizzazione e la divulgazione – ha un obiettivo tanto ambizioso quanto visionario: la ricostituzione della cineteca senegalese, da dotare di tecnici specializzati, archivi, depositi e laboratori all’avanguardia nella regione, per “riempire l’amnesia collettiva dentro la quale ci troviamo e che determina una distorsione della percezione della storia globale”, secondo Tiziana Manfredi.

La macchina da cucire per le bobine
Nei nuovi locali della Dci di Dakar, una bassa costruzione nel quartiere centrale di Mermoz, Marco apre la porta del laboratorio affrettandosi a richiuderla dietro di sé, per non far uscire la frescura del condizionatore, sempre fisso a 17 gradi “per conservare le pellicole”. Indossa occhiali, una maschera protettiva, un lungo camice bianco e guanti in tessuto lisi sull’indice e sul pollice.

Dopo essersi formato in restauro audiovisivo alla Sapienza di Roma e aver lavorato alla cineteca di Tolosa (principale partner tecnico del progetto che ha digitalizzato le prime quattro bobine, presentate a due eventi pubblici a Dakar nel dicembre del 2020) e al centro di cinematografia marocchino di Rabat, Marco Lena è tornato in Senegal nel 2019 e, da allora, trascorre qui la maggior parte del suo tempo, saltellando tra le due stanze del laboratorio, spulciando alte cassettiere di metallo, accarezzando negativi fotografici e riparando con lo scotch le bobine danneggiate. Su un foglietto appeso all’entrata, una scritta a pennarello avverte: “Sono in laboratorio. Per favore non chiudetemi dentro”.

Dietro l’uscio si schiude un mondo fatto di mensole straripanti di tonde scatole metalliche (le “pizze” di pellicola), luci, lenti d’ingrandimento, flaconi di percloro e altri liquidi chimici, scotch e macchinari fai da te. Oltre all’incollatrice di precisione e a un piccolo banco ottico per controllare i negativi fotografici, la creatura prediletta di Marco è senza dubbio la tavola manuale “passa-film”, per visionare le bobine. Costruita con il padre, su un balcone di Riva Trigoso, in versione pieghevole “da mettere in valigia”, questa specie di macchina da cucire serve per controllare e riparare le bobine, srotolate da un rocchetto all’altro grazie a una manovella e due piatti rotanti di legno. “Le pellicole soffrono la cattiva conservazione, l’usura del tempo, gli sbalzi termici violenti e possono sviluppare la sindrome acetica, una degenerazione chimica che ne altera il ph, rendendole grumi di cristalli illeggibili”. Nel laboratorio l’odore di aceto che dà il nome al processo di erosione delle bobine, si mischia con quello di carta macerata, tipico di tutti gli archivi.

Dakar, Senegal, marzo 2021. I negativi dello scalo dell’Inter a Dakar nel 1964. (Michele Cattani)

Scavando nell’immenso archivio recuperato dal ministero dell’informazione – centinaia di pellicole delle actualités sénégalaises, ossia i primi cinegiornali dell’Africa occidentale, e una stima di oltre 80mila fotografie, l’archeologia visuale del Senegal dall’epoca coloniale a quella digitale (1953-2000) – ogni tanto spuntano immagini di particolare valore storiografico e culturale: una giovanissima regina Elisabetta d’Inghilterra in visita a Dakar nel 1968 che stringe la mano a Léopold Sédar Senghor, poeta e primo presidente del Senegal libero; ritratti di grandi personalità del panafricanismo e della negritudine come Amílcar Cabral e Aimé Césaire (oggi popolarissimi tra i giovani); reportage sui primi Service cinéma, carovane di cinema ambulante organizzate dal ministero dell’informazione in tutto il paese, tra gli anni cinquanta e sessanta; una “cartolina” girata a Dakar la settimana precedente il primo festival delle arti nere del 1966 (evento cardine che sancisce il rinascimento culturale postcoloniale dell’Africa occidentale) e firmata da Paulin Soumanou Vieyra, uno dei primi africani subsahariani a realizzare un cortometraggio nel 1955; rarissime fotografie del presidente burkinabé Thomas Sankara in viaggio in Senegal; i primi passi sulla scena di una ventenne, Germaine Acogny, chiamata la “madre della danza africana contemporanea” e Leone d’oro della danza 2021 alla biennale di Venezia.

Come investigatori
Marco Lena, laureato in storia all’università di Genova, le chiama “pepite”. Scivolano fuori da sgualcite buste bianche su cui, ai tempi, sono stati presi veloci appunti: una data, il tema, il nome di un cameraman o del fotografo dietro a uno scatto o un reportage. Frammenti d’informazioni oggi essenziali per ricostruire e catalogare una parte di storia globale dimenticata. Pezzi mancanti di un puzzle da ricomporre pazientemente, tessera dopo tessera.

“A volte ci si sentiamo quasi degli investigatori”, scherza l’archivista. Tra le sue mani scorrono diapositive che cristallizzano l’effervescente epoca delle indipendenze africane, che storicamente ha coinciso con la divisione del mondo nei due blocchi della guerra fredda, quando il Senegal e la sua capitale erano un crocevia per politici e personalità internazionali alla ricerca di nuovi sbocchi e influenze.

Grazie a questa certosina opera di conservazione, dall’oblio della memoria riaffiorano anche immagini che testimoniano l’interesse dell’Italia, che fin dall’indipendenza del 1960 ha mantenuto rapporti diplomatici e culturali con Dakar. Dalle buste del ministero dell’informazione senegalese spunta così anche la visita nel paese del 25 aprile 1971 del ministro degli esteri Aldo Moro e uno scalo aereo dell’Inter di Facchetti e Mazzola, di ritorno da una coppa intercontinentale vinta in Sudamerica nel 1964.

“È da notare che l’ufficio cinematografico del primo festival mondiale delle arti nere di Dakar del 1966 si trovava a Roma”, osserva Lena. A metà giugno, non a caso, è prevista una presentazione del progetto all’Istituto italiano di cultura di Dakar (riaperto a gennaio) in una serata dedicata ai rapporti tra Italia e Senegal nel cinema. Per l’occasione, la cineteca nazionale di Roma presenterà L’ubriaco (1960), cortometraggio di fine studio di Ababacar Samb, grande regista senegalese, che si era formato a Roma. Ospite della serata, in videoconferenza, sarà la Cineteca di Bologna, referenza mondiale per il restauro di film su pellicola. Recentemente l’istituzione, che organizza il festival del Cinema ritrovato e che ha restaurato due pietre miliari del cinema senegalese come Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty (1973) e La noire de… di Sembène Ousmane (1966), ha affiancato la cineteca di Tolosa in supporto al progetto dell’associazione MamiWata.

Autorappresentazione
Scavando più in profondità nel senso ultimo di questi documenti ritrovati, andando al di là dell’innegabile valore storico e culturale, si arriva alla fondamentale questione della narrazione. In quest’ottica, oltre a rappresentare le opere prime e la fucina di un’intera generazione di registi senegalesi nati all’indomani dell’indipendenza e successivamente diventati maestri della cinematografia africana, le actualités sénégalaises sono anche le prime testimonianze vive dell’autorappresentazione africana postcoloniale.

Come ricorda Tiziana Manfredi, infatti, “tra le tante leggi razziali in vigore durante il colonialismo, la legge Pierre Lavall del 1934 vietava agli africani delle colonie francesi di rappresentarsi, di filmarsi o di fotografarsi. Da qui si deduce l’importanza e il clamore, oltre che per il valore artistico ed estetico, delle ‘foto-studio’ alla Malick Sidibé (il pioniere maliano della fotografia africana). Subito dopo l’indipendenza, infatti, tutti quanti andavano a farsi ritrarre da un fotografo africano, cosa che fino a quel momento gli era proibito. Così i cinegiornali, le actualités senegalesi, maliane o burkinabé, prodotte in quell’epoca post-indipendenza filmate da africani per un pubblico africano, hanno un peso fondamentale, a livello identitario, nella narrazione della storia”.

“Sono immagini che ci appartengono e in cui oggi finalmente riusciamo a rivederci, a ritrovarci”, le fa eco Ndèye Mané Touré. “Per questo è necessaria una diffusione di massa, nei luoghi culturali che hanno un certo pubblico, ma anche nelle scuole e nelle università, con una mediazione per le nuove generazioni”. Il recupero di una memoria condivisa è, secondo Mané, da contestualizzare nel più generale bisogno di un pensiero critico originale che si sta sviluppando sempre più nell’arte contemporanea, nel cinema, nella letteratura dell’intera Africa occidentale.

Nel Senegal di oggi, tale processo di riappropriazione culturale – che passa anche dalla spinosa questione della restituzione delle opere d’arte africane trafugate dalle ex potenze coloniali, tra cui compaiono anche i negativi originali degli archivi senegalesi, in maggioranza stampati e tuttora custoditi in Francia, Stati Uniti e Marocco – è incarnato soprattutto dalla Biennale d’arte contemporanea Dak’Art e da Les ateliers de la pensée di Dakar, aperti nel 2016 da Achille Mbembé e Felwine Sarr.

“Noi della gioventù africana odierna”, conclude Mané, “dobbiamo ispirarci alla vecchia guardia di registi senegalesi. Erano giovani, dinamici, politicamente impegnati e si univano per realizzare film e progetti artistici collettivi”. Le fonti storiografiche senegalesi che oggi stanno finalmente rivedendo la luce grazie a questa “azione concreta”, per dirla con le parole di Felwine Sarr, sono nuovi preziosi strumenti a disposizione non solo di documentaristi, storici e ricercatori di tutto il mondo, ma di chiunque osi reinventare l’avvenire.

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