Simone è fissato con gli stivali. In camera ne ha molte paia, ordinate vicino alla porta. È un ragazzo biondo di quasi trent’anni, con un bel sorriso. Nell’aprire il suo piccolo mondo si scusa: “È un casino”. Non lo è. Sul tavolo, uno scrittoio elegante di legno chiaro, ricordi di viaggi, una salamandra di ceramica colorata, psicofarmaci e pupazzi. Dal computer esce musica per intenditori. “Adoro il pop o, meglio, questo pop: giapponese e coreano. ‘Ste ragazzette non c’hanno rivali”.

La musica è parte dei suoi interessi, così come la storia dell’arte, che studia all’università di Roma Tre. “L’arte è la mia vita. Mi aiuta ad affrontare i pregiudizi. Quello verso la malattia mentale, certo. E quello sulla mia omosessualità”. Soffre di depressione cronica e vive in questa casa da un anno, dopo la morte di entrambi i genitori. La sua, quella dove è cresciuto, è poco distante. “Ogni volta che ci passo e vedo quel cancello non ce la faccio. L’ho dovuta affittare. Penso che mi fermerò a lungo qui”.

Divide la casa con altre due persone: Giulia, un po’ più giovane, e Riccardo, quarant’anni. Insieme formano uno dei trenta “gruppi appartamento” di pazienti psichiatrici seguiti dall’asl Roma due. I gruppi appartamento si rifanno all’esperienza statunitense dell’abitare supportato, un approccio radicale alla salute mentale nato negli anni novanta che intreccia assistenza medica tradizionale e ricerca di autosufficienza. In pratica, le persone con disturbi mentali, anziché vivere e curarsi dentro cliniche pubbliche o private, condividono appartamenti in cui gli operatori trascorrono dalle quattro alle otto ore al giorno, a seconda dei casi. In Italia, questo tipo di esperienze nasce spesso dal basso, e oggi è diffuso soprattutto in Trentino, in Piemonte, in Toscana, nel Lazio e in Umbria.

Simone, Giulia, Riccardo
Passare una giornata a casa di Simone e degli altri ragazzi aiuta a capire l’originalità di questo approccio. L’appartamento è circondato da palazzi alti e grigi ed è vicino all’hotel San Paolo, nella zona sud di Roma. Costruito e mai utilizzato, è uno scheletro bianco che gli abitanti del quartiere chiamano “bidet”. In terrazza, Giulia arrotola una sigaretta. È una ragazza alta dalle mani grandi, con lunghi capelli neri raccolti a crocchia. “Per chi ci vede da fuori potremmo sembrare una coppietta”, ride Simone. “Le voglio bene, anche se è davvero insopportabile”. Lei sorride, senza perdere di vista il tabacco tra le dita. Parla di libri, di viaggi passati e sognati. Viene da chiedersi che ci faccia qui.

“Stavo con uno da anni, non c’ero più con la testa. Mi ero affidata completamente a lui”, racconta. “Poi ho incontrato uno scalatore di un’altra città, sai quel che si dice una passione che ti travolge? Al di là di com’è andata a finire, mi ha sbloccato”. Giulia passa molto tempo nella stanza che si apre sulla grande terrazza. Vicino alla finestra ha attaccato un cappello di paglia a cono, preso in un viaggio in Vietnam. Ci ha messo attorno un velo fucsia: “Non uscivo mai senza”, racconta, “lo guardo e ricordo. Mi vedo ancora lì, con uno spiedino di gamberi arrostiti in mano”.

Sul tavolo ci sono dei fogli. Sono canzoni e poesie, che Giulia scrive e accompagna con lo djembè o la chitarra. Con Simone e Alessio, uno degli operatori che segue questi ragazzi, ci sediamo a terra ad ascoltarla: “Sono l’ombra di niente, la cosa più paurosa/ Né fiore né umana, né soprammobile né strada/ Sono ovunque e in nessun posto/ Vivi tu che hai un’ombra, tu che puoi”. Giulia non sa cosa farà in futuro. “Ho una famiglia incasinata. Per tanto tempo non sono riuscita a fare nulla, stavo male. Ora frequento un laboratorio di cucina al centro diurno e prendo lezioni di canto. Vivere qui mi fa bene”.

Si è fatta ora di cena. Alessio, l’operatore, saluta e se ne va. Rientra Riccardo, l’altro coinquilino, un uomo alto con lunghe basette. È il chitarrista dei Ricovero, la band del centro diurno, una delle strutture regionali dove si organizzano attività di sostegno, recupero e socializzazione. Chiedo loro di raccontarmi una giornata tipo. “Stiamo molto in terrazza”, dice Simone. “Chiacchieriamo, fumiamo. La cena la facciamo sempre insieme”. Ma dopo, la sera ognuno la passa per conto suo. “Credo che tutti insieme non siamo mai usciti”, dice Riccardo. “Dovremmo organizzare”. Simone ha molte amiche con cui va al cinema o ai concerti, Giulia ha un ragazzo, conosciuto al centro diurno.

La stanza di Giulia, il collage a sinistra è una delle sue creazioni. Roma, luglio 2017. (Giuseppe Casalinuovo per Internazionale)

La partecipazione alle attività del centro, in questa come in altre realtà simili, è su base volontaria. Molti lo frequentano all’inizio del percorso, per esempio, per poi andarci sempre meno. Riccardo ci va ogni tanto a dare una mano come grafico, Giulia per il laboratorio; Simone mai, soprattutto adesso che, cinque giorni a settimana, fa la guida turistica all’ex Cartiera latina nel parco della Caffarella. “Se non è parte di un progetto terapeutico seguito dai servizi, l’abitare in sé non funziona”, afferma Alessandro Reali della cooperativa Il mosaico. “Ogni passo deve essere condiviso con medici e operatori. Altrimenti si creano posti letto, non persone autonome. L’autosufficienza va costruita nel tempo, e poi va difesa. Il paziente deve poter arrivare a vivere da solo, un giorno”.

Renato, Antonio e Jacopo
Con Reali visito un’altra delle case gestite da Il Mosaico. Mentre siamo ancora immersi nel traffico, mi spiega che si tende a proporre l’esperienza dell’abitare supportato soprattutto ai più giovani. “Meglio intervenire quando la malattia è all’inizio. L’età media, comunque, oscilla tra i 35 e i 40 anni. Nelle case convivono uomini e donne, ma spesso sono più gli uomini che decidono di andare a vivere per conto loro. Le storie sono le più varie: ci sono ex internati in ospedali psichiatrici giudiziari, persone che sono state in comunità, ragazzi che vogliono staccarsi dalle famiglie. I gruppi li forma il centro di salute mentale, l’ente che a livello territoriale coordina tutti gli interventi riabilitativi”.

Per quanto possibile, si cerca sempre di permettere alla persona che vuole entrare a far parte di un gruppo appartamento di trovarne uno il più vicino possibile a dove è cresciuta. Gli appartamenti dell’asl Roma due sono soprattutto nel quartiere Ostiense. “Sono grandi, trovati sul mercato degli affitti, con due o tre stanze da letto, singole o doppie”, dice Reali. “L’affitto è tra i 1.400 e i duemila euro al mese, ed è pagato dalle famiglie. Se la casa non è di proprietà di uno dei pazienti, il contratto se lo intesta la cooperativa che gestisce il progetto, oppure la asl, per garanzia del proprietario”.

In un salotto al quarto piano di un grande palazzo con le mura rosse, in una via senza rumore, Renato è sdraiato sul divano. Ha 42 anni e una cicatrice sul volto, trasformata in tatuaggio. È tornato ad abitare nella zona dove è cresciuto, dopo otto anni trascorsi tra l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa e una comunità a Formia. “Non scrivere come tutti dell’opg”, avverte. “Quella è acqua passata. Scrivi di quello che succede ora”.

Il palazzo è circondato dal verde. Da una parte c’è la tenuta di Tor Marancia, dall’altra il parco di Forte Ardeatino. Renato è un tecnico informatico. “Avevo la mia vita, una compagna. Poi m’ha lasciato, ho smesso di lavorare, m’imbriacavo. Ho fatto una cazzata dopo l’altra. Me so’ chiuso la porta da solo”. Da quando ha ottenuto la libertà vigilata ed è arrivato in questa casa, un anno fa, le sue giornate trascorrono lente, in attesa di qualcosa che tarda ad arrivare. “Non ho più amici. Dopo otto anni, figurati. Non sento più nessuno. E poi, guarda: anche potendo, ‘ndo vado? Condomini a perdita d’occhio, pure per andare al bar devi fare un chilometro. Qui intorno non c’è nulla”.

Lo sguardo rimanda a un tempo passato, in cui Renato si sentiva in gioco per qualcosa. I contorni sfumano, diventano fragili in questi giorni di primavera in cui a Roma fa già caldo. “Gli ultimi tempi lavoravo all’Eni, nel palazzo di vetro all’Eur. Il mare di Ostia era la libertà, dal lavoro e da tutto. Prendevo la Cristoforo Colombo e c’arrivavo in mezz’ora. Non c’era troppa strada da fare”.

Nella stanza irrompe la voce del telegiornale. Antonio, 52 anni, un altro degli inquilini, si avvicina alla tv. Non si perde un’edizione. “Sono quello che a Fuorionda, la radio del centro diurno, dà le brutte notizie. Chi s’ammazza e chi s’impicca. Tutti i giorni, insieme alle previsioni del tempo”. Antonio è stato a lungo in strutture tipicamente residenziali, le comunità terapeutiche. Seduto sul divano i suoi occhi celesti, vivi, attenti, scrutano i visitatori. Ha cominciato ad avere deidisturbi mentali trent’anni fa.

“Sai che c’è? Nun m’andava de lavora’. L’ho detto e l’ho ridetto, l’ho strillato in mezzo alla strada. Al servizio militare m’hanno riformato, manco lì volevo muovere un dito”. Eppure, lavora da un sacco di tempo: la sera fa il guardiano all’oratorio San Filippo Neri, nel quartiere Garbatella. Ci va da solo, in autobus. “Vado lì da 21 anni, quando i preti mi chiamano. Je smorzo le luci, tiro gli sciacquoni”, dice. “Mi pagano tre euro all’ora”.

Il lavoro, il sesso, le famiglie
Il lavoro è uno dei temi più critici in queste storie. La maggior parte delle persone svolge un’attività in situazioni protette e seguite dalle cooperative sociali, con l’obiettivo, un giorno, di inserirsi o reinserirsi nel mercato. A partire dai laboratori e dalle attività nei centri diurni, ogni progetto cerca di valorizzare interessi o competenze.

Jacopo, l’altro coinquilino di Antonio e Renato, è in cura da anni per depressione cronica. È stato cameriere e barman in un’enoteca a Trastevere: “Vorrei riprendere da lì. Mi sento portato per la cucina. In futuro vorrei fare un corso da cuoco, lavorare in una trattoria. Nel frattempo frequento scienze della comunicazione”. Jacopo è il cantante del gruppo di cui fa parte anche Riccardo, i Ricovero. “È proprio come la canzone che ho scritto, Adrenalina: ‘La vita vera è un inferno, ma ci sto dentro’. Ai concerti al centro diurno facciamo solo cover però, il pubblico è parecchio sul classico”.

Renato nel suo appartamento a Roma, maggio 2017. (Giuseppe Casalinuovo per Internazionale)

In queste stanze, forse per la tranquillità della via, così insolita per Roma, c’è un’atmosfera di sospensione. Renato attende la chiamata di suo padre. I genitori vivono a poche decine di metri, in un palazzo dello stesso colore. Li vede una volta alla settimana, la domenica a pranzo. Oggi è un giorno di festa. È il compleanno della nipote e vuole portarle un regalo. Non può mancare. “Vorrei tornare a vivere dai miei, ma per loro non è una buona soluzione. Mia madre è cilena, abbiamo una casa a Santiago. Lei e papà fanno avanti e indietro, io non ci vado dal 1988. Hanno la loro vita”.

Nella maggior parte dei casi l’abitare supportato ha proprio l’obiettivo di liberare la persona da certe dinamiche familiari. Chi viene inserito nei progetti ha bisogno di progettare la propria vita in maniera autonoma rispetto a padri e madri, anche in termini affettivi. “Qualche volta le situazioni vengono sottovalutate”, afferma Simona, un’operatrice, “si fa finta di non vedere. Quando una ragazza che ora è in una delle case ha cominciato a parlare in aramaico e a fare il verso della gallina la madre per mesi ha ignorato il problema. Continuava a batterle una mano sulla spalla dicendole ‘piccina, andrà tutto bene…’”.

Uscendo, Renato chiede a Simona i soldi per le sigarette. C’è una piccola cassa su un tavolo bianco, vicino all’armadietto delle medicine. Simona la apre, segna tutto su un’agenda. Gli operatori tengono i conti delle spese, organizzano i turni per le pulizie degli ambienti e, soprattutto, fanno da filtro tra quello avviene dentro le mura di casa e il mondo là fuori.

“Parliamo molto”, dice Simona. “Queste realtà sono talmente diverse l’una dall’altra che il concetto stesso di salute mentale diventa relativo. Ci sono persone con storie complesse, genitori problematici, qualcuno ha anche dei figli. E non sempre è facile. Quando ho iniziato a lavorare con la cooperativa uno degli utenti era aggressivo, aveva degli scatti d’ira. Non riuscivo a stare da sola con lui”.
Per instaurare una relazione basata sulla fiducia, si parla di tutto, anche di sesso. “Ne parliamo, certo”, spiega Simona. “So come lo vive ognuno di loro, i problemi che affrontano quando magari nasce un rapporto. Consiglio e dico la mia, ma sempre dentro al mio ruolo. Non posso essere un’amica”.

Il sesso è un argomento molto delicato. Per gli utenti con disturbi mentali più avanzati ci vorrebbe una figura specifica. In Italia, il dibattito su questo tema è fermo al disegno di legge 1442, presentato nel settembre del 2014 dal parlamentare del Partito democratico Sergio Lo Giudice, con la firma anche di Monica Cirinnà. Prevede l’istituzione e regolamentazione dei love giver, una figura professionale riconosciuta nei Paesi Bassi, in Germania e in Svizzera. A oggi, nonostante la disponibilità mostrata da alcune regioni come l’Emilia-Romagna e la Toscana a formare queste figure, l’esame del testo in senato non è ancora stato calendarizzato.

L’incertezza delle leggi
L’incertezza normativa riguarda lo stesso abitare supportato. Una legge nazionale non c’è, così ogni regione tratta l’argomento in maniera differente. A Perugia, un’esperienza consolidata come la fondazione Città del Sole attraversa un momento difficile proprio per questo motivo. Nata nel 1998 per iniziativa dello sceneggiatore Stefano Rulli e della moglie, la scrittrice Clara Sereni, è una realtà unica nel panorama italiano: studenti e lavoratori abitano con i pazienti psichiatrici, nella convinzione che la condivisione dello spazio con persone che hanno gli stessi problemi sia una scelta terapeutica poco efficace. Viene firmato un vero e proprio contratto, chiamato “patto di cura”: in cambio di un alloggio gratuito, studenti universitari e lavoratori devono assicurare, a turno, la presenza nelle ore serali e fermarsi almeno un anno negli appartamenti.

“L’affitto è gratuito anche per chi soffre di disturbi, e questo grazie a una convenzione con la regione Umbria che attraverso l’asl paga anche noi operatori”, spiega Marco Casodi, responsabile della fondazione. Casodi vive da undici anni con uno degli utenti, un ragazzo autistico che dopo un inizio difficile ha visto migliorare giorno dopo giorno. La fondazione negli ultimi dieci anni è cresciuta. Oggi gestisce nove appartamenti, ha un negozio di prodotti equosolidali e tutti gli anni a settembre organizza PerSo, un festival di cinema molto seguito. La convenzione con la regione, tuttavia, scadrà nel 2018 e non verrà rinnovata.

La stanza di Simone, Roma, luglio 2017. (Giuseppe Casalinuovo per Internazionale)

“Non sanno come accreditarci”, spiega Casodi. “Non siamo né una casa famiglia né un centro diurno, le realtà che la legge riconosce. Se qualcosa non si sblocca rischiamo di chiudere, disperdendo il lavoro fatto sul territorio”.

Molte leggi regionali equiparano l’abitare supportato alle case famiglia, che però sono un servizio diverso visto che si rivolgono a minori, anziani e disabili. Inoltre, per essere accreditate, le case famiglie richiedono requisiti strutturali più stringenti, come l’accesso a norma per i disabili. “Servirebbe un intervento legislativo nazionale che prenda atto dell’esistenza di realtà come le nostre, più incentrate sulla persona che sulla struttura”, afferma Tonia Di Cesare, responsabile dei progetti di cohousing dell’asl Roma due.

La lezione di Basaglia
Già alla fine degli anni settanta, promuovendo la “cultura dell’uscire”, Franco Basaglia proponeva che gli ex internati nei manicomi ritornassero a vivere dentro case e appartamenti. Per lo psichiatra significava restituirgli una carta d’identità, una voce. Certo, aggiungeva Basaglia, all’inizio si tratterà di una voce stonata, in sordina, mai la voce chiara “dell’uomo in bombetta e parapioggia della City”. Ma la casa, per come la intendeva lo psichiatra, era uno dei passi per la riappropriazione dei diritti di cittadinanza dei malati.

La riforma del 1978 voleva giustamente superare la logica manicomiale, per cui se una persona finiva in una struttura ci poteva restare per tutta la vita”, afferma lo psichiatra Antonio Maone. “Purtroppo, è successo anche che una quota di persone con disturbi poi non ha trovato una sistemazione fuori dalle strutture e ha finito per gravare sulle famiglie”. I centri diurni e le comunità terapeutiche, nati all’inizio degli anni novanta per ovviare alla chiusura dei manicomi, sono diventati luoghi di nuove segregazion: “Certo non assimilabili agli ospedali psichiatrici”, continua Maone, “ma comunque posti per soggiorni limitati, dove le persone vivono isolate, lontano dalla società”.

L’origine delle prime esperienze di abitare supportato in Italia è da ricercare nella volontà di superare queste criticità. Secondo l’approccio teorizzato negli Stati Uniti, la malattia è un continuum, perciò si prevedono livelli di assistenza meno intensivi mano a mano che il processo riabilitativo va avanti.

In tempi di continui tagli alla sanità, quest’idea può essere anche un’alternativa a soluzioni più costose. “Nonostante il caos normativo, le regioni incoraggiano l’abitare supportato anche per un motivo pratico: costa meno”, assicura la dottoressa Tonia Di Cesare. In una regione come il Lazio, dove la sanità pubblica è affidata per la maggior parte a convenzioni con strutture private, uno studio del 2015 del dipartimento di salute mentale dell’asl Roma due ha calcolato il risparmio per famiglie e servizio sanitario nazionale.

Se una comunità terapeutica con assistenza 24 ore su 24 costa tra gli 82 e i 130 euro al giorno a paziente, una persona in un gruppo appartamento con il livello massimo di assistenza, otto ore, ne costa 40. Lo studio evidenzia anche come la sfida dell’autonomia porti a una drastica riduzione dei ricoveri in ospedale, pagati 260 euro al giorno. I numeri oscillano da una realtà all’altra, ma danno un’idea del valore aggiunto dell’esperienza italiana rispetto all’approccio seguito in altri paesi.

“In Europa, per esempio, ci sono casi in cui persone con disturbi psichici vivono in palazzi riservati esclusivamente a loro. Penso al Congregate housing in Finlandia o alle Communal houses nel Regno Unito, dove vivono anche senza fissa dimora con disturbi mentali”, conclude Reali. “Soluzioni che rimandano all’idea che esisti solo per la tua malattia, non perché sei un essere umano. Per noi è centrale, se non fondamentale, la capacità della persona di farcela da sola”.

E a proposito di farcela da soli. Un caldo pomeriggio di giugno, vado a trovare Simone all’ex Cartiera latina nel parco della Caffarella. Sta spiegando l’ultimo dipinto a una manciata di visitatori. È ora di chiusura. “Lei è Maria Antonietta regina di Francia, la mia preferita”, dice. “Mi ha colpito una cosa. Quando arrivò a Parigi, dall’Austria, le tolsero tutto, anche il cucciolo di cane che aveva con sé. Non doveva più avere legami col passato, rompere con la persona che era stata”.

Eleonora, una collega di Simone, accelera il racconto, spegnendo il ventilatore e le luci della sala. “Non perdetevi il film di Sofia Coppola!”, dice. “Oh sì, è bellissimo”, dice Simone, guardando l’orologio. “Grazie per la visita. Che dite, ci facciamo un bel selfie? Veloce però, devo riportare le chiavi al guardaparco”.

Da leggere

Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale, a cura di Antonio Maone, Barbara D’Avanzo.
L’inclusione sociale e lavorativa in salute mentale, a cura di Raffaele Barone , Simone Bruschetta , Marco D’Alema.
L’utopia della realtà, di Franco Basaglia.
Il giardino dei gelsi, di Ernesto Venturini.

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