Gianni apre una porta di legno al primo piano di una casa in pietra. Siamo nel vicolo di un paese piccolo e silenzioso, nell’Italia del nord. Attaccate alle pareti, accanto alle medaglie del nonno partigiano, belle cornici ospitano dipinti dai colori caldi, regali di un ex compagno di cella.

Gianni si siede. Ha sessant’anni e gestisce una pizzeria poco lontano dalla casa dove ci troviamo ora. Si scusa per il fatto che mi sta ospitando in cucina, sono le dieci del mattino e la tavernetta dove c’è la sua biblioteca è ancora fredda. Per strada non c’è ancora nessuno. Con un tono di voce gentile, comincia a raccontare una storia complicata. “Sono stato un boia”, dice. “Ho terrorizzato la mia città, devastato le vite di alcune persone”.

Guardando lontano, agli anni dell’adolescenza, Gianni vede un ragazzino già capace di odiare. “Mio padre. Mi voleva primo in tutto. Era autoritario, castrante. Usava il metodo del bastone e della carota, e mia madre non si opponeva. Ho odiato anche lei”. A diciott’anni, gli scontri con i genitori esplodono. “Rifiutavo ogni condizionamento familiare, odiavo la scuola, le istituzioni. Ho sessualizzato la mia rabbia. Le prime donne che ho aggredito assomigliavano a mia madre: con loro volevo punire il fatto che non si opponesse a mio padre, che non mi difendesse”.

Nei vent’anni successivi, Gianni entra ed esce dal carcere. All’apparenza, le sue giornate scorrono tranquille. Ha diverse relazioni sentimentali, con alcune ragazze va anche a convivere, fa il commerciante. Intanto, però, commette reati comuni e aggredisce in maniera seriale le donne. “Succedeva di sera”, racconta, “sempre in luoghi chiusi e con un coltello. Era diventato un rito”. È anche coinvolto in alcuni episodi di estremismo politico. “Credo che ognuno di noi abbia tre vite”, dice. “Una normale, quella che tutti vedono: casa, lavoro, routine. Una privata. E una segreta, che nel mio caso è disgustosa. È di questa che mi sono dovuto occupare”. L’ultima volta che esce dal carcere, Gianni incontra la donna che sarebbe diventata la sua compagna e la madre di sua figlia.

In Italia l’adesione a un progetto di recupero è su base volontaria

Come molti aggressori sessuali, ha partecipato a diversi percorsi terapeutici: prima dentro il carcere milanese di Opera, dove è stato detenuto per più di dieci anni; e poi fuori, lavorando con il Centro italiano per la promozione e la mediazione (Cipm), un’onlus fondata nel 1995, specializzata nel prevenire la recidiva di chi ha commesso un reato sessuale.

A differenza del mondo anglosassone e della Francia – dove il trattamento per questo tipo di reati è parte integrante e obbligatoria della rieducazione del condannato – in Italia l’adesione a un progetto di recupero è su base volontaria. Nel carcere di Bollate, il muro che divideva chi ha commesso reati sessuali dagli altri detenuti è stato abbattuto solo nel 2010.

Caso unico in Italia, qui il Cipm gestisce l’unità di trattamento intensificato per autori di reati sessuali, e su 248 condannati che hanno fatto un percorso con loro, solo otto hanno commesso di nuovo un reato sessuale. Nonostante questi numeri, il progetto, finanziato nel 2005 dalla regione Lombardia, da quasi tre anni sopravvive grazie a qualche finanziamento europeo e alle donazioni della fondazione Carlo Enrico Giulini, padre di Paolo, il fondatore del Cipm. Per vedere da vicino come funziona il loro lavoro, in cosa consista questa esperienza, decido di andare a Bollate.

In carcere
È una calda giornata d’inizio ottobre. I detenuti che partecipano al programma di “trattamento intensificato” del Cipm si confrontano con gli operatori nella riunione del giovedì. C’è un’atmosfera particolare nell’aria, dovuta alla partenza dell’educatore che ha lavorato qui negli ultimi due anni.

Un uomo di sessant’anni si è portato un foglio scritto in cella, che legge con voce tremante: “Grazie, dottore Scornamiglio, perché mi ha aiutato a tirar fuori cose che sembravano chiuse dentro di me a doppia mandata. Siamo belli complicati. Al momento dell’arresto mi sentivo forte, nel giusto. ‘Spacco il mondo ’, mi dicevo. Poi il mondo ha spaccato me, beninteso”.

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A turno si condividono impressioni, si raccontano esperienze anche atroci. “Ho paura di stare in una stanza da solo con una donna, mi viene la claustrofobia, anche quando sono con l’educatrice a prendere le medicine per la terapia”, dice Massimo, un uomo sulla cinquantina con una lunga barba grigia e gli occhi vivaci. “Dovrò vedervi ancora dopo il fine pena”, afferma un detenuto con le spalle larghe e una felpa nera, rivolgendosi all’équipe di Giulini.

In mezzo al gruppo, un ragazzo con i capelli corti e gli occhiali da sole appesi alla maglietta ascolta i compagni con occhio attento. Si chiama Giovanni, ha poco più di vent’anni, sta finendo di scontare la sua pena. Oltre a partecipare al progetto in carcere, con altri due detenuti partecipa al presidio criminologico territoriale, un gruppo che lavora in una struttura gestita dal Cipm in collaborazione con il comune di Milano.

Fuori dal carcere
Vado in questo centro il martedì dopo la visita in galera. È in una via tra la stazione centrale e il centro sociale Leoncavallo. Tre gruppi di uomini di tutte le età ci vanno una volta ogni due settimane per raccontare e analizzare le loro storie, i crimini che hanno commesso, tra i più odiosi che si possano commettere. Alcuni sono stati condannati e sono qui in permesso, approfittando delle misure alternative alla detenzione; altri vengono volontariamente dopo aver scontato la pena; altri ancora sono in attesa di giudizio, accusati di possesso o diffusione di materiale pedopornografico, violenza contro le donne o minori. Vivono a Milano e nel suo hinterland, lavorano, qualcuno ha una famiglia.

Gli incontri avvengono in una sala con venti sedie disposte a cerchio, illuminata da una grande finestra che dà sui campetti da calcio di un oratorio. Ognuno è libero di dire la sua o anche solo di ascoltare.

“Spesso siamo di fronte a persone socialmente integrate”, spiega Andrea Scotti, uno degli psicologi responsabili. “Ci sono un ingegnere, un professore. Due ex preti. Li seguiamo individualmente e attraverso i gruppi di prevenzione della recidiva. Li aiutiamo a identificare i sintomi di una ricaduta, a gestirli”.

A sinistra: prima di un incontro di gruppo al presidio criminologico territoriale, Milano, 2010. A destra: la lavagna usata da chi partecipa ai percorsi di recupero. (Giovanni Cocco)

Per evitare che una persona commetta un reato sessuale, si lavora per farle riconoscere gli stereotipi di genere e tutte le forme di violenza, non solo quella fisica e quella sessuale, ma anche quella psicologica, emotiva, economica; si fa in modo che l’assunzione di responsabilità sia totale; si elaborano strategie individuali per “arrestare il processo psicoemotivo interiore che porta all’esplosione della violenza”.

Tanto negli incontri collettivi, quanto in quelli individuali, il lavoro dell’équipe si concentra poi sulla personalizzazione di chi ha subìto un abuso, una figura che gli autori di reati sessuali volutamente ignorano, svalutano o distorcono. La parola ricorre accompagnata da diversi aggettivi: indiretta, virtuale, presunta.

“Sai qual è la prima cosa che imparano le donne che frequentano corsi di difesa personale?”, mi chiede Gianni, che oggi racconta la sua esperienza negli incontri del Cipm. “Guardare negli occhi l’aggressore, girargli attorno. La sottomissione eccita, gli occhi e il movimento, invece, possono bloccare l’aggressore perché quella che lui considera carne, oggetto, diventa soggetto”.

Il confronto
Il gruppo di lavoro del Cipm cerca di far sì che la persona che ha subìto una violenza diventi parte del vissuto dell’aggressore. Gianni, per esempio, ha incontrato due delle sue vittime: “C’è voluto un po’ di tempo. Mi ha aiutato il fatto che ci fossero delle terapeute con cui lavorare. Ragazze che si sono messe in discussione con me, cambiando l’idea che prima avevo del genere femminile”.

Rispetto all’approccio canadese o statunitense, più rigido nelle relazioni e meccanicistico nell’analisi dei singoli casi, il rapporto tra i terapeuti del Cipm e gli autori di reati sessuali è basato su un’interazione senza filtri o etichette, ed è caratterizzato da una forte spinta a capire cosa succede nelle loro teste.

“È importante definire in maniera precisa il piacere che si prova nel fare del male, il godimento nel devastare una persona in senso fisico e psicologico”, racconta uno dei partecipanti ai gruppi, che preferisce restare anonimo. “La terapia è efficace se chi mi aiuta si mette nei miei panni. Se capisce perché una certa cosa per me è eccitante, magari riesce a spiegarmi meglio perché non devo passare all’atto. Ha maggiore credibilità ai miei occhi”.

Per togliere lo scudo dietro al quale chi ha compiuto un reato sessuale si rifugia annullando ogni sua responsabilità – spesso spalleggiato dalla famiglia che rafforza i suoi meccanismi difensivi – il gruppo ha una funzione importante. Carmelo, un signore anziano con la giacca di tweed, dice di essere caduto in una trappola con una ragazza, a cui era legato da un vincolo di parentela. Sorpreso da solo con lei, è stato accusato di molestie sessuali. Interviene Giovanni: “Non c’è stata nessuna trappola, ti sei spinto tu fino a quel punto”. Ma Carmelo ribatte, alterato: “La madre della ragazza ha detto cose non vere, ha esagerato”.

Un uomo rimasto in silenzio chiede la parola. Si chiama Michele, ha una sciarpa al collo e una voce calda. “Come fai a pretendere che una vittima, a un certo punto, reagisca in maniera razionale? Spesso quando una persona è aggredita perde la lucidità”, dice guardando Carmelo. “Non puoi chiederglielo”.

Il gruppo è anche il luogo in cui condividere i progressi nel proprio percorso. “Mi sarebbe piaciuto dire ‘se avessi saputo di ‘sto centro non avrei fatto nulla’”, dice Giovanni, guardando lo psicologo dall’altra parte della stanza. “Ma sono cazzate. Ho superato un limite dopo l’altro, una barriera dopo l’altra. Lo facevo, mi piaceva. Al senso di colpa subentrava l’appagamento sessuale”.

Sulla sedia bollente
Una volta al mese, a turno, un componente del gruppo va sulla “sedia bollente”, seguendo un metodo inventato in Canada che prevede che il partecipante risponda alle domande degli altri sul proprio reato. Rispetto agli incontri collettivi in carcere, dove il livello di conflittualità è alto e la sedia bollente è occasione di confronti anche aspri, nei gruppi all’esterno l’atmosfera è più distesa.

“Ti senti a casa in quella merda”, comincia Virgilio, seduto sulla “sedia bollente”. Parla di una chat di pedopornografi che frequentava e dove lo scambio illegale di foto e video era molto semplice. In attesa della sentenza sul proprio futuro, quest’uomo di cinquant’anni, grandi baffi e occhi azzurri, grafico di professione, dice di voler cambiare: “Era un modo per scaricare le mie frustrazioni. Mi nascondevo e non vedevo lo schifo che ero diventato”.

L’aiuto dei terapeuti a elaborare le proprie emozioni è costante, come spiega Scotti: “La sedia bollente è un’esperienza che serve a tutti per confrontarsi con il proprio vissuto. Eppure, alla domanda ‘come vi siete sentiti ascoltando il racconto di Virgilio?’, molti hanno risposto ‘interessante’, non cos’hanno provato veramente. Vuol dire che da parte loro c’è ancora distanza”.

Nei circoli di sostegno e responsabilità
Il lavoro sul territorio va oltre il carcere e il presidio criminologico. In un bar poco lontano da Porta Romana, nella zona sud di Milano, un ragazzo sudamericano raggiunge un gruppo di persone sedute a dei tavolini fuori del locale. Si chiama Carlos, è alto, porta i capelli pettinati all’indietro e una felpa grigia. È in Italia da sedici anni, il suo paese d’origine è l’Ecuador. Dopo la sospensione della pena a due anni per possesso di materiale pedopornografico ha cominciato a frequentare i circoli di sostegno e responsabilità, incontri in contesti informali in cui l’autore di un crimine a sfondo sessuale può parlare delle proprie pulsioni con persone comuni, fuori del ristretto cerchio degli addetti ai lavori.

“All’inizio venivo solo per capire cosa avevo fatto, il perché”, racconta, “col tempo siamo diventati amici. Mi sfogo con loro, butto fuori tutto quello che non va”. Nel 2010, Carlos frequentava le scuole serali e faceva il fruttivendolo nei vari mercati rionali della città. Racconta di non avere mai avuto una relazione normale: “Ragazze? Zero. Sono molto legato alle mie sorelle. E a mia madre. Quando mi hanno arrestato le è crollato il mondo addosso. Mi teneva su un piedistallo”.

A sinistra: prima di un incontro di gruppo, presidio criminologico territoriale, Milano, 2010. A destra: un corridoio del presidio, Milano, 2010. (Giovanni Cocco)

I circoli, un’esperienza di giustizia riparativa ideata in Canada a metà degli anni novanta dal pastore evangelista Jean-Jacques Goulet, sono importanti perché creano una rete di ascolto intorno a chi ha compiuto un reato sessuale e potrebbe rifarlo.
Carlos racconta due episodi recenti: “A luglio ho accompagnato mia sorella piccola a fare un test d’inglese. Era pieno di ragazzine, di quindici o sedici anni. Mi sembrava che il pavimento fosse fatto di fuoco! Stessa cosa a Gardaland, ad agosto”. Con l’aiuto del circolo, il passaggio alla violenza non è mai avvenuto: “Parlare mi aiuta a mettere tutto in fila. Ricordare quello che ho fatto, chi ho deluso”, continua. “Ho visto un film in cui c’era una scena di violenza contro una donna, l’ho trovata orribile. Poteva essere mia sorella”.

In Italia, soltanto a Milano c’è una struttura specializzata che lavora con gli autori di crimini sessuali, mentre in molte altre città sono presenti centri dedicati all’ascolto dei maschi maltrattanti che non hanno commesso violenze sessuali. Da un paio d’anni, i circoli di sostegno e responsabilità, oltre che a Milano, sono anche a Piacenza.

I numeri delle violenze
“Occuparsi degli aggressori è fondamentale per tutelare le persone che subiscono abusi”, riflette Pietro Forno, il pubblico ministero che, all’interno della procura di Milano, ha creato il pool di magistrati specializzato in reati sessuali. “Dobbiamo ricordarci che la maggior parte di queste persone è capace d’intendere e di volere e che ci vogliono terapie adeguate”, spiega nel suo ufficio dietro a piazza del Duomo, a Milano. “Io sono favorevole all’obbligo di cura dopo la detenzione, come accade in Francia con il suivi socio-judiciaire. Altrimenti, questi escono dal carcere e agiscono indisturbati”.

Secondo l’Istat, in Italia una donna su tre ha subìto una qualche forma di violenza fisica o sessuale durante la propria vita. Le statistiche certificano che la maggior parte dei fatti più gravi è compiuta dal partner o dall’ex partner. “A uccidere, violentare, sottomettere, sono prevalentemente mariti, figli, padri, amanti incapaci di tollerare pareti domestiche troppo o troppo poco protettive, abbracci assillanti o abbandoni che lasciano scoperte fragilità maschili insospettate”, scrive Lea Melandri in Amore e violenza.

I dati mostrano una diminuzione delle violenze fisiche e sessuali, ma non della loro intensità: aumentano infatti quelle che causano ferite, e cresce il numero di donne che hanno temuto per la propria vita.

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Nel rapporto intitolato Indifesa e pubblicato nel 2016, la fondazione Terres des hommes scrive che tra il 2011 e il 2016 si registra “un drammatico aumento a tre cifre nella pornografia minorile che tocca la vertiginosa quota del + 543 per cento”; mentre le violenze sessuali e quelle aggravate sono diminuite del 26 per cento e del 31 per cento rispetto al 2015, quando a subirle erano stati 908 minori.

Queste cifre aiutano a capire le dimensioni del problema, eppure c’è un tassello che manca. A parte i dati sulla recidiva delle persone che partecipano ai gruppi nel carcere di Bollate, non ci sono statistiche e ricerche su chi commette reati sessuali e poi segue percorsi per affrontare il problema. “La frequenza è volontaria, dopo il periodo d’obbligo stabilito dal tribunale, o esaurita la spinta di chi è ormai libero, non possiamo obbligare nessuno a continuare un percorso terapeutico. Può finire che non sappiamo più niente di lui”, ricorda Paolo Giulini.

“I percorsi fatti con operatori e psicologi servono ad accorgersi degli elementi che precedono un’esplosione, a parcellizzarli, trasformando quest’energia negativa in qualcosa di propositivo, di sano. Se uno ha rabbia dentro e non risolve i problemi con se stesso, cercando aiuto, la rabbia esploderà, in qualsiasi forma”, mi dice Gianni.

Alla fine di una lunga chiacchierata, mi chiedo come sia la sua vita oggi. Dopo undici anni fuori dal carcere, dopo aver passato molto tempo a pensare al dolore che ha provocato, dopo il lavoro nei gruppi, Gianni sembra avere ritrovato un equilibrio che gli permette di condurre una vita senza le violenze di un tempo. La sua compagna conosce il suo passato, insieme hanno avuto una figlia che oggi ha undici anni. Un giorno, dice, racconterà tutto anche a lei.

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