Non esiste visione di Napoli da parte di un napoletano che sia condivisa da un altro napoletano; donde il mistero indecifrabile di questa città, l’inspiegabile sentimento contraddittorio che suscita, il fascino, l’attrazione che emana.
Renzo Arbore, dalla prefazione a Figli di un Bronx minore di Peppe Lanzetta

“Te manno ’nu vase!”. Franco Ricciardi guida la sua Jeep tra le strade di Scampia, quartiere nella periferia nord di Napoli. Ogni tanto tira fuori una Marlboro light dal pacchetto che tiene sul cruscotto, e aspira lunghe boccate. A un certo punto una macchina gli si affianca, la donna che siede sul sedile del passeggero tira giù il finestrino e lo chiama, urlando. È una fan. La scena, quasi identica, si ripete due o tre volte nel giro di dieci minuti. Lui, con pazienza, saluta tutti, sorride e manda baci, rispondendo in dialetto.

È il 6 gennaio. Ricciardi è teso, perché tra poche ore salirà sul palco di piazza Giovanni Paolo II, che qui preferiscono chiamare piazza Ciro Esposito in ricordo del tifoso del Napoli ucciso nel giugno 2014 da un ultrà della Roma. Il concerto, intitolato Luci a Scampia, è stato organizzato insieme al comune di Napoli. “Stasera torno a casa”, dice Ricciardi nascondendo il leggero strabismo dietro gli occhiali da sole.

Franco Ricciardi, nome d’arte di Francesco Liccardo, fa musica da trent’anni. A Napoli è una star, nel resto d’Italia no, anche se negli ultimi anni è riuscito a farsi conoscere da un pubblico più vasto: nel 2014 ha vinto un David di Donatello per il brano ’A verità, incluso nella colonna sonora di Song ’e Napule, il film dei Manetti Bros. Altre sue canzoni (’A storia ’e Maria, Malammore e Uommene) fanno parte della colonna sonora della serie tv Gomorra. Blu, l’ultimo disco, ha ricevuto ottime recensioni dalla stampa specializzata. Eppure da nessuna parte Ricciardi è acclamato come qui, a Scampia, a due passi dal quartiere Miano, dov’è nato nel 1966 e dove vive sua madre.

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“Io sono nato là, di fronte alla cappella, al primo piano”, dice Ricciardi indicando l’appartamento dov’è cresciuto. Non scende dalla macchina, perché se lo riconoscono diventa impossibile parlare in tranquillità. “Il primo disco l’ho fatto nell’ottobre del 1986, ma in realtà ho sempre cantato. Mi sono esibito per la prima volta a dieci anni, alla festa per le nozze d’argento dei miei genitori. Quel giorno ho cantato ‘O treno d”0 sole di Mario Merola e Papà è Natale di Patrizio”, ricorda.

La musica di Franco Ricciardi mescola la canzone popolare napoletana con il pop, l’elettronica e l’hip hop. Ricciardi è cresciuto ascoltando Merola e Pino Mauro, ma anche Michael Jackson. Negli anni ottanta faceva soprattutto canzoni d’amore, era quello che alcuni definirebbero un neomelodico, anche se a lui il termine non piace affatto. “Sono sempre stato curioso”, ci tiene a sottolineare quando gli si chiede perché la sua musica è cambiata rispetto agli esordi.

Negli ultimi anni sono usciti molti libri, film e canzoni su Napoli. I romanzi di Elena Ferrante e Gomorra – libro e serie tv – sono diventati famosi in tutto il mondo. Nel 2017 le canzoni di Liberato, un altro artista di successo che, come Ferrante, preferisce non rivelare la sua identità, hanno riscosso successo in tutta Italia, anche per merito dei videoclip di Francesco Lettieri, costruiti su un’estetica originale e un po’ patinata della città. Eppure da anni a Napoli, soprattutto nelle periferie, succedono cose interessanti, specie in ambito musicale, di cui forse non si parla abbastanza. Franco Ricciardi è un esempio perfetto di quanto sia vitale e sottovalutata la scena napoletana.

Un concerto a Scampia
La Jeep del cantante continua il giro di Scampia. Attraversa il rione Don Guanella e costeggia le Vele, ex centro nevralgico dello spaccio di droga gestito dalla camorra. La giunta di Luigi De Magistris ha annunciato che i palazzi saranno tutti abbattuti tranne uno per portare a compimento il piano di demolizioni inaugurato da Antonio Bassolino negli anni novanta.

Proprio in quel periodo Franco Ricciardi ha scritto una canzone sulle Vele, composta insieme allo scrittore e drammaturgo Peppe Lanzetta. S’intitola 167 ed è una specie di tammurriata rock di denuncia sociale.

“La 167 è la legge che permette a chi non ha una casa di averne una. Insieme a Peppe decidemmo di raccontare senza veli il nostro pensiero sulle periferie. Sono partito proprio dal ritornello, che è quasi una filastrocca: ‘Uno, sei, sette: chesta è ’a 167. Sei, sette, otto: pò succedere ’o quarantotto’. Lo stato non si è mai fatto vedere più di tanto nelle periferie. Per loro siamo poco importanti”, spiega il cantante.

Il quartiere negli ultimi anni è migliorato. Le piazze di spaccio si sono spostate altrove, forse anche perché su Scampia si sono accesi i riflettori dei mezzi di comunicazione. “Spesso quando si parla di Scampia si esagera. Oggi nessuno ti rapina per strada, si vive bene. Se la realtà fosse quella che descrivono i telegiornali nun venisse cchiù a Napule, tenesse paura (non verrei più a Napoli, avrei paura)”.

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Dopo il giro in macchina, Ricciardi va a casa a cambiarsi e mi lascia in piazza Ciro Esposito. Su un lato c’è un enorme colonnato, dove spicca la scritta: “Quando la felicità non la vedi, cercala dentro”. Qui c’è anche il centro territoriale Mammut, che organizza attività per i giovani del quartiere e i migranti. Mentre il sole tramonta, i ragazzi di Scampia e quelli arrivati da altre parti della città si mettono in cerchio e fanno break dance.

Sono le otto. Ricciardi è nel camerino dietro al palco. Ad aspettarlo in piazza ci sono circa diecimila persone. Due poliziotti entrano per farsi un selfie con lui ed escono guardando le foto sul telefono. Nel frattempo sono arrivati anche altri musicisti che saranno ospiti di Ricciardi sul palco. Sono tutti rapper: i napoletani Enzo Dong e Lucariello, e il salernitano Rocco Hunt.

Franco Ricciardi alle Vele di Scampia, Napoli, febbraio 2018. (Carlo Rainone per Internazionale)

Verso le nove e mezzo Ricciardi esce dal camerino e sale sul palco: pantaloni e giacca nera di pelle, ha ancora gli occhiali da sole. Sulla schiena le borchie del giubbotto formano la scritta “167”.

Il concerto dura più di due ore. Il pubblico, composto da persone di tutte le età, sa le canzoni a memoria. I ragazzini si arrampicano sulle grate ai lati del palco per vedere meglio, tirano su anche una bambina con il ciuccio. Gli addetti alla sicurezza li fanno scendere.

Verso la fine del concerto Ricciardi canta un altro pezzo storico del suo repertorio: Cuore nero. L’ha scritto più di dieci anni fa insieme ai 99 Posse. Nel ritornello c’è una frase che oggi non lascia indifferenti: “Simme tutte africane nuje napulitane”.

Le Vele, Secondigliano e Don Guanella
Siamo dentro alle Vele, è un venerdì pomeriggio di fine gennaio e sono passate tre settimane dal concerto di Ricciardi. Il rapper Enzo Dong sale le scale della Vela verde, una di quelle che dovevano essere abbattute mesi fa. Qui vivono ancora diverse famiglie, anche se l’edificio è in pessime condizioni: le tubature perdono acqua e creano grandi pozze vicino alle fondamenta. I cavi elettrici pendono dall’alto, i muri sono pieni di buchi, ci sono vetri rotti e rifiuti ovunque.

A un certo punto Enzo Dong si ferma e si affaccia da un pianerottolo. Guarda la Vela azzurra, l’unica che dovrebbe rimanere in piedi secondo i piani della giunta De Magistris. “Quando ho girato il video del mio pezzo Italia Uno, ho messo il logo della tv di fronte alla Vela azzurra, proprio là”, racconta il musicista mentre indica il cortile. “Nel video si vedono i fuochi d’artificio. Secondo la tradizione della camorra, i botti si sparano quando arrivano i carichi di droga, ma io qui li ho usati in modo ironico perché, come canto nel pezzo, a Italia 1 gira più droga che alle Vele. Volevo dare un’immagine del mio quartiere diversa da quella del covo di criminali che piace tanto ai mezzi d’informazione. Sono contrario all’abbattimento di questi palazzi, dovrebbero trasformarli in un museo”, aggiunge.

Enzo Dong, classe 1991, è cresciuto a Secondigliano, a due passi da Scampia e dal rione Don Guanella. Si è formato frequentando i Fuossera, gruppo storico del rap napoletano che una decina d’anni fa insieme ai Co’ Sang ha dato vita a Poesia cruda, un’etichetta discografica e una crew che racconta con l’hip hop le periferie napoletane (per avere un’idea del loro lavoro, basta riascoltare Nun me parlà ’e strada, vero e proprio manifesto di un hip hop napoletano crudo e intenso). Da buon rapper, sfoggia delle Nike dorate e indossa degli orecchini a forma di croce.

I pezzi di Enzo Dong sono una variante napoletana della trap statunitense

Enzo Dong si è costruito pian piano un seguito solido: prima a Scampia, poi a Napoli e in parte anche nel resto d’Italia. Merito di pezzi rap di protesta come Secondigliano regna e Sott e bas (che non a caso cita 167 di Franco Ricciardi), ma anche di brani ironici come il tormentone Higuain, in cui l’ex attaccante del Napoli (ora alla Juventus) diventa l’archetipo del traditore. “Higuain ha creato diverse polemiche, mi accusavano di essere un rapper affiliato con la camorra. Sono finito anche in tv da Chiambretti. Ma non hanno capito niente: quello è il mio pezzo attaccabrighe, quello per fare le tarantelle, come si dice a Napoli. Io non ce l’avevo né con la Juve né con Higuain. Il mio era un modo per denunciare il suo atteggiamento e parlare di tradimento in generale”, spiega il cantante.

Nonostante la giovane età, Enzo Dong dimostra di aver già capito molte cose dell’industria musicale: cura molto le idee alla base dei suoi video, collabora con altri rapper (da Izi alla Dark Polo Gang). I suoi pezzi sono una variante napoletana della trap statunitense e raccontano la vita delle periferie senza retorica, ma anche con una buona dose d’ironia.

Il suo nome d’arte, Dong, è l’acronimo di Dove ognuno nasce giudicato. “Se vieni da Secondigliano tutti pensano subito che sei uno spacciatore, un drogato o un criminale. Mi sono sempre sentito giudicato da chi viveva negli altri quartieri. Quando andavo a trovare i miei amici al Vomero o nel centro storico spesso i loro genitori non mi facevano neanche salire a casa. E poi gli amici mi hanno sempre chiamato ’o Dong anche perché vengo dal rione Don Guanella”.

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È fiero delle sue origini, anche se sa di essere cresciuto in un contesto complicato. “Certe cose da piccolo fai fatica a capirle, ma qualche ricordo del periodo delle faide a Scampia ce l’ho. Il primo cadavere l’ho visto da bambino, ero in macchina con mio padre e c’era un corpo sull’asse mediano, la superstrada che passa qui vicino. Non lo conoscevo, non so chi fosse. Il secondo era un mio amico, morto di overdose a quattordici anni. Da quel giorno ho capito che se volevo cavarmela dovevo fare qualcosa di creativo. Ho fatto il liceo artistico vicino a piazza Cavour, in centro. Anche se vengo da un posto difficile, dove la droga era facile da trovare, non mi sono mai drogato”.

Lasciamo le Vele e proseguiamo a piedi verso il rione Don Guanella, dove Dong è cresciuto, e dove sono state girate alcune scene di Gomorra. “Ho sempre ascoltato musica, fin da bambino. Ogni giovedì e ogni domenica qui c’era il mercato. Mi svegliavo con la musica pop napoletana nelle orecchie. Il rap invece l’ho scoperto guardando la tv, con i video di 50 Cent, Mos Def e Eminem. Ero fissato con l’hip hop americano, ma poi ho ascoltato i Fuossera e i Co’ Sang. Il loro rap parlava della nostra realtà, delle nostre periferie. Quando ho scoperto che i Fuossera abitavano vicino a me non ci volevo credere. Un giorno mi sono piazzato davanti a casa loro e sono rimasto lì tutto il giorno ad aspettarli. Siamo diventati amici, mi hanno insegnato tanto”.

Enzo Dong ha girato tutti i suoi video tra Secondigliano e Scampia. Ha coinvolto amici e altri ragazzi del quartiere, che si divertono a fare le comparse. Il suo obiettivo è far vedere la periferia napoletana da un altro punto di vista. “Sono abituato a vivere il mio quartiere giorno per giorno, e ho intenzione di continuare a farlo. Ti faccio un esempio: quando Secondigliano regna è stata scelta per la colonna sonora di Gomorra, ci siamo dati appuntamento a casa mia per guardare insieme la puntata sul divano. Non sapevo a che punto sarebbe arrivata la canzone. Quand’è partita, abbiamo esultato come allo stadio”.

Enzo Dong è ambizioso, non vuole fermarsi a Napoli. Vuole farsi conoscere e avere successo. Ma non vuole dimenticarsi da dove viene. Tra una sigaretta e l’altra, confessa: “Mi sono riscattato. Dai, un po’ come Kendrick Lamar, Good kid in a maad city, un bravo ragazzo in una città folle”.

Una passeggiata per il centro storico
Il centro di Napoli è affollato. Sono le tre e mezzo del pomeriggio e tutti i caffè di piazza San Domenico sono pieni. La cantante Da Blonde fuma e si stringe nel suo cappotto. Daniela Napoletano, questo il suo vero nome, è una delle poche donne che spiccano nella scena napoletana attuale. È cresciuta in via Mezzocannone, poco lontano da qui, negli anni in cui il centro storico non era quello di oggi, pieno di turisti e studenti universitari. Anche lei è nella colonna sonora di Gomorra: il suo brano Sensibile è stato scelto per la terza stagione della serie.

Mentre ripensa agli esordi, Da Blonde racconta: “Ho cominciato a fare la cantante durante le serate techno in discoteca, qui nei locali di Napoli. Una decina d’anni fa il mio compagno, Johnny Dama, che oggi fa il regista dei miei video e anche di quelli di Enzo Dong, mi ha spinto a fare la cantante. Mi sembrava una cosa irraggiungibile. Dal 2011 ho avviato il mio progetto solista. Ho fatto collaborazioni importanti, come quella con Luché dei Co’ Sang e con Franco Ricciardi. Alcuni progetti a cui ho partecipato mi rappresentavano, altri molto meno. Ora ho trovato un genere in cui mi sento più a mio agio, il dream pop. Ascolto soprattutto musica straniera e m’ispiro ai Beach House, ma anche a Lana Del Rey”.

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Dopo il caffè a San Domenico, ci spostiamo per le vie del centro, camminando tra turisti stranieri e italiani. Passiamo da piazza Bellini, una delle zone più vivaci e frequentate dai giovani della città. Qui vicino ci sono l’accademia di belle arti e il conservatorio di San Pietro a Majella, dove studiò Vincenzo Bellini. “A Napoli si vive molto per strada, anch’io da bambina stavo spesso a giocare in giro. Il centro storico di Napoli è cambiato molto negli anni, prima non era chic come oggi. Da adolescente, quando la sera tornavo a casa da sola, non ero tranquilla. Le strade erano vuote e gli scippi erano frequenti. Oggi la città ha un altro volto, da queste parti”, spiega Da Blonde.

Le chiedo se sia stato complicato farsi largo nella scena musicale napoletana, e mi spiega che per una donna non è semplice: “C’è una forte misoginia nell’ambiente, forse legata un po’ alla mentalità del sud: tutti si sentono in diritto di dirti quello che devi fare. Chi ti dà un’opportunità poi si sente ancora più in diritto di dirti cosa devi fare. E questo per me, che sono abituata a scrivere da sola le canzoni, è una cosa controproducente. Nei primi anni di carriera ho faticato a farmi strada, a far capire agli altri il genere che volevo fare. Non tutte le esperienze sono state negative però e per fortuna adesso ho trovato la mia strada”.

Allo Scugnizzo Liberato
A pochi passi da dove saluto Da Blonde c’è il quartiere Montesanto e qui, sulla salita Pontecorvo, c’è lo Scugnizzo liberato, uno dei cosiddetti “spazi liberati” della città. Napoli, in questo momento, è attraversata da un grande fermento politico, soprattutto grazie all’iniziativa di alcuni collettivi di sinistra che hanno trasformato i palazzi abbandonati della città in centri culturali e luoghi d’accoglienza.

Il più famoso è l’ex Opg Je so’ pazzo, dov’è nato il partito Potere al popolo. Ma ci sono anche l’ex asilo Filangieri, Santa Fede Liberata e altri. Lo Scugnizzo liberato, occupato dagli attivisti del collettivo Scacco matto e gestito da un’assemblea di attivisti e abitanti del quartiere, è lo spazio più attivo dal punto di vista musicale.

Nell’enorme cortile interno del palazzo, che fino agli ottanta ospitava il carcere minorile Filangieri, due ragazzi giocano a pallone. Gli attivisti hanno messo due porte da calcio, sicuri che avrebbero attirato i bambini del quartiere.

La cantante Da Blonde a Napoli, febbraio 2018. (Carlo Rainone per Internazionale)

La superficie che ospita lo Scugnizzo liberato è grande circa 16mila metri quadrati. Nel carcere Filangieri nel 1985, per volontà dell’attore e drammaturgo Eduardo de Filippo, fu aperto un piccolo teatro per i detenuti. I ragazzi dello Scugnizzo liberato l’hanno ristrutturato e ci organizzano dei concerti al chiuso. Quelli all’aperto invece li fanno nel cortile. Arrivano gruppi di Napoli, ma anche band straniere, di tutti i generi: ska, punk, folk e rap.

Nel 2016 questo e gli altri spazi occupati di Napoli sono stati riconosciuti come un “bene comune” da una delibera della giunta De Magistris. Allo Scugnizzo incontro Sergio Sciambra, occupante e membro del NaDir Collective, un gruppo che organizza anche il festival estivo NaDir/Napoli Direzione Opposta a Soccavo, nella periferia ovest della città. Sergio ha 25 anni, studia all’università Federico II e fa anche il giornalista freelance.

Attualmente i rapporti con il comune, dice, sono “dialettici”. Tradotto significa che su alcune cose c’è accordo, su altre meno. Allo Scugnizzo non si viene solo per ascoltare musica: la comunità capoverdiana, piuttosto numerosa nel quartiere Montesanto, organizza tornei di calcetto femminile e gestisce corsi di capoeira in collaborazione con gli attivisti. Si fanno anche lezioni di inglese, break dance, skateboard, e alcune stanze sono messe a disposizione della comunità srilanchese, che ci organizza compleanni e feste religiose.

“Questo spazio è dedicato soprattutto ai ragazzi del quartiere. Oggi si discute tanto di baby gang, quelle che prima si chiamavano paranze, ma nessuno parla mai con questi ragazzi. Il nostro obiettivo è recuperare le regole di convivenza, che mancano nei quartieri popolari di Napoli”, aggiunge Sciambra.

Forcella, una città nella città
“Lucarie’!”, urla un ragazzo mentre sfreccia su un motorino nel centro della città. Il rapper Lucariello lo saluta, ma non è sicuro di averlo riconosciuto. “Era un fan o un amico?”, si chiede. Siamo appena usciti dal rione Forcella. Lucariello indossa gli occhiali scuri, un cappellino dei New York City Knicks e ha un grande anello d’oro a forma di leone all’anulare. È un regalo del nonno.

“Forcella è una periferia dentro il centro”, spiega il rapper. Agli angoli delle strade, mi fa notare, si vendono ancora le sigarette di contrabbando e nel quartiere sono attive le paranze. Nel cuore del rione c’è la biblioteca Annalisa Durante, un presidio per la legalità che porta il nome della ragazza di 14 anni morta nel 2004 durante una sparatoria tra due clan rivali. Lucariello ha vissuto qui due anni, dov’è stata girata buona parte della terza stagione di Gomorra, poi si è trasferito a Pozzuoli.

Luca Caiazzo, questo il suo vero nome, è una figura storica dell’hip hop napoletano. Ha cominciato nel 1996 con il collettivo Clan Vesuvio. Nel 2003 è diventato il cantante degli Almamegretta al posto di Raiz e dal 2007 ha inaugurato un’interessante carriera solista. In quell’anno ha pubblicato il brano Cappotto di legno, ispirato alla vita di Roberto Saviano. Da bambino frequentava Scampia, dove viveva sua nonna. Oltre a fare musica, si dedica all’impegno sociale: cura diversi progetti nelle periferie di Napoli e ha tenuto un laboratorio creativo nel carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento, scrivendo insieme ai detenuti la canzone Puorteme là fore.

Lucariello si è avvicinato al rap da giovanissimo. “Mio nonno aveva una casa al villaggio Coppola, un complesso abusivo di case sul mare vicino a Castel Volturno. Poco distante c’era la base Nato di Lago Patria, che ospitava i militari americani. I figli dei militari, quando io avevo otto anni, già ascoltavano gruppi come gli Sugar Hill Gang o i Public Enemy. Per me quello è stato il primo contatto con il rap e ho cominciato a scimmiottare i brani in napoletano. In questo senso per me Tullio De Piscopo è stato un faro. Nel 1984 fece una canzone chiamata Stop bajon, che secondo me è stato il primo rap napoletano della storia. Ancora oggi quando l’ascolto mi commuovo”.

Anche i brani di Lucariello sono stati inclusi nella colonna sonora di Gomorra. Il suo ultimo disco, Il Vangelo secondo Lucariello, è uscito a novembre del 2017. Tra i pezzi dell’album c’è Nuje vulimme ’na speranza, che si sente alla fine di ogni puntata della serie di Sky, e Guagliun e miez a via, un pezzo gangsta rap che racconta la vita dei giovani napoletani che lavorano per la camorra.

“In Italia il gangsta rap si può fare solo a Napoli, perché siamo i neri d’Italia: tutti sono un po’ razzisti nei nostri confronti. E poi c’è il fattore sociale: se nasci in certi quartieri hai la strada segnata. In pezzi come Guagliun e miez a via parlo dei giovani che lavorano per il sistema, ma lo faccio per denunciare questa mentalità, non certo per celebrarla. Nessuno è più credibile di un rapper napoletano su questi argomenti”, spiega il musicista.

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Mentre attraversa il vico delle Zite, Lucariello aggiunge: “Il successo di Elena Ferrante, come quello di Roberto Saviano, hanno a che fare anzitutto con la loro capacità narrativa. È vero che hanno riportato attenzione sulla città, ma Napoli interessa da sempre, perché è la sola città rimasta del mondo antico, come diceva Curzio Malaparte. Nei bassi del centro storico le signore vivono ancora come centocinquant’anni fa, magari insieme agli immigrati dello Sri Lanka”.

A questo punto viene da chiedersi: ma le guide del New York Times che raccontano i luoghi della Napoli di Elena Ferrante, fatte su misura per i turisti stranieri, rendono giustizia alla città? Questa Napoli da cartolina è una cosa positiva o negativa? “Dipende. L’attenzione dei giornali stranieri e l’aumento del turismo ovviamente sono un bene, ma il modo in cui si parla della città è spesso banale, oleografico. Oggi invece sento che c’è un interesse forte per la nostra Napoli, quella di Franco Ricciardi e degli altri musicisti che c’erano al concerto Luci a Scampia. È più cruda, ma anche più autentica, e in fondo più interessante”, aggiunge il rapper mentre torniamo verso il centro.

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