La lezione di italiano è il lunedì. Andrea, l’insegnante, un ragazzo alto di 37 anni originario di Catania e trapiantato negli Stati Uniti, arriva sorridente e abbronzatissimo nel suo piumino azzurro, alle sei in punto. È appena tornato a New York da una vacanza di un mese nella Repubblica Dominicana, con i suoi anziani genitori arrivati dalla Sicilia. La classe si riunisce nella North conference room, una stanza al 38º piano del One world trade center, il nuovo grattacielo dove dalla fine di gennaio del 2015 si è trasferita la redazione del New Yorker. Dietro la parete di vetro si vedono i tetti di Manhattan.

Intorno a un tavolo moderno di legno chiaro prendono posto Anna, Maria, Aldo, Nicola e Rebecca: si sono dati dei nomi italiani perché durante la lezione di Andrea è bandita qualunque parola inglese, anche i nomi propri. Più che una lezione, è una conversazione. A turno Andrea chiede ai suoi studenti di raccontare qualcosa che hanno fatto nelle ultime quattro settimane, mentre lui era in vacanza.

Nicola, sguardo vispo, occhiali di tartaruga e una ciocca di capelli castani sulla fronte, parla per primo, snocciolando una parola alla volta e correggendosi di continuo. Che è un tipo irrequieto si capisce da come dondola sulla sedia. Di recente è stato in Europa, prima in Irlanda dalla sorella, poi in Svizzera dal padre.

Il vero nome di Nicola è Nicolas Niarchos, ma tutti lo chiamano Nick. Ha 26 anni e fa il fact checker al New Yorker da quando ne aveva 23. Laureato in letteratura inglese a Yale, ha cominciato a lavorare nei giornali a Londra, con uno stage al Guardian. Ha collaborato con l’Independent e l’Huffington Post, poi il master alla scuola di giornalismo della Columbia gli ha aperto le porte di The Nation prima e del New Yorker poi.

Giovani e stressati

Nick mastica un po’ di francese, un po’ di russo e un po’ di greco, la lingua di suo padre. Andrà via dalla lezione scusandosi dieci minuti prima della fine, per andare a vedere l’Elisir d’amore alla Metropolitan opera house. Opera a parte, l’italiano gli piace. E poi le lingue sono fondamentali per il suo lavoro. Nick fa parte della squadra di 18 fact checker che tutti i giorni dalla redazione del New Yorker verificano ogni affermazione che il giornale pubblica, sulla carta e sul web, passando al setaccio gli articoli riga dopo riga e controllando tutto: nomi, dimensioni, età, distanze, date, formule, citazioni, dichiarazioni, descrizioni di luoghi, persone o avvenimenti, dall’attualità politica alla storia medievale, dalla musica pop alle neuroscienze, da Manhattan a Kabul, dai titoli alle didascalie, perfino le affermazioni contenute nelle poesie.

Nel dipartimento dei copy editor del New Yorker, marzo 2016. (Giulia Zoli, Internazionale)

Quella dove lavorano i fact checker, con i loro telefoni e le cuffie con il microfono, è l’unica parte della redazione in cui non regna il silenzio assoluto. Si sente parlare inglese, urdu, arabo, cinese, spagnolo. Conoscere una lingua a volte può permetterti di interpellare direttamente una fonte risparmiandoti ore di ricerche su internet o decine di email e messaggi a intermediari lontani. Soprattutto perché il tempo è poco. Il ritmo non è più quello di una volta: i fact checker lavorano in due, a volte tre, su un articolo, per una o due settimane, poi il pezzo deve andare in stampa. Il 5 novembre 2010 a Roma pioveva? Il C4A è un gene? Quanto dista Ben Gardane, in Tunisia, dal confine libico?

Se una sua proposta di modifica viene respinta, Mary si fa una delle sue fragorose risate e si rimette al lavoro

I ragazzi di Peter Canby, il capo del dipartimento, uno che ha cominciato a fare il fact checker al New Yorker ai tempi della guerra in Vietnam, quando a volte per verificare un fatto si doveva prendere un aereo, sono tutti giovanissimi, brillanti, curiosi, svegli, collaborativi. E stressati. Lavorano d’intesa con l’autore dell’articolo, spulciano i suoi bloc notes di appunti presi a mano, si fanno dare da lui contatti e indicazioni, e poi consultano database, istituzioni, cittadini comuni, cercano riscontri su internet e nei libri. Nick ama il suo lavoro: “M’interessa la verità”, dice candidamente. Anche scrivere gli piace. Per il sito del New Yorker recensisce regolarmente i nuovi bar della città e ogni tanto anche qualche poeta.

Appena Nick finisce di parlare, la parola passa a Maria.

Quando parla italiano, Maria – gli occhi azzurri sorridenti e i capelli grigi lunghi fino alle spalle – non si ferma troppo a cercare le parole. Prevale la voglia di dire, e ogni tanto le esce una frase incomprensibile. Andrea la corregge e lei si entusiasma quando in una parola italiana riconosce la radice greca o latina. Originaria di Cleveland, classe 1952, Maria racconta che a metà febbraio è volata a Vancouver, in Canada, per tenere una Ted conference sul copy editing.

La regina della virgola

Il suo vero nome è Mary Norris e fa la copy editor al New Yorker, dove lavora dal 1978: ha cominciato ai tempi della macchina da scrivere – come quella che troneggia in bella vista nel suo ufficio – come aiutante nell’archivio, poi è diventata correttrice di bozze e via via è cresciuta fino a guadagnarsi il titolo di ok’er, una specie di super copy editor. Mary, infatti, è una delle cinque persone in redazione che supervisionano la lavorazione degli articoli – dalla prima bozza alla versione definitiva – e hanno la responsabilità di dare l’ok finale al testo dopo aver inserito le ultime modifiche.

A sinistra la vista su Manhattan dalla redazione del New Yorker; a destra le bozze di un articolo con le correzioni di un copy editor, marzo 2016. (Giulia Zoli, Internazionale)

Questo avviene al termine di un meticolosissimo lavoro di revisione e correzione che dura settimane e che coinvolge almeno l’autore, l’editor, i fact checker, un avvocato, uno o due copy editor, uno o due rilettori che verificano la fedeltà delle modifiche e una serie di correttori di bozze che rileggono l’articolo a vari stadi della lavorazione.

Prima di venire alla lezione di italiano, Mary ha passato alcune ore china su sei fogli stampati e ha segnato a matita alcune proposte di modifica al racconto di Ian McEwan che uscirà sul New Yorker la prossima settimana. È specializzata in narrativa: nella sua carriera ha rivisto i testi dei più grandi scrittori contemporanei, da John McPhee a Philip Roth a George Saunders.

Mary smentisce il luogo comune del copy editor intransigente e giudicante, lo scrittore fallito e frustrato che vorrebbe imporre il suo stile agli altri. Conosce alla perfezione la grammatica e le regole di scrittura del New Yorker, ma al di là della correttezza, le interessa “fare in modo che l’autore possa essere apprezzato al meglio”. Se una sua proposta di modifica viene respinta, Mary si fa una delle sue fragorose risate e si rimette al lavoro.

Becky ha imparato l’italiano facendo la pasticcera in Umbria e la contadina in un agriturismo nelle Cinque Terre

L’anno scorso ha pubblicato Between you and me. Confessions of a comma queen, un libro intelligente, utile e molto divertente in cui parla di grammatica, della sua vita e del New Yorker. L’idea è nata quando un suo post sulle virgole ha attirato un numero record di lettori sul sito del giornale. Poi il New Yorker ha lanciato online la rubrica Comma queen, una serie di video in cui Mary parla di grammatica, lessico e stile. “Dopo questa esperienza avrò la certezza di conoscere definitivamente la grammatica”, dice senza falsa modestia. Siccome non ama stare davanti alla telecamera, quando registra le puntate Mary parla a braccio.

“E tu, Rebecca, cosa hai fatto di bello?”. Andrea si rivolge a una ragazza bruna seduta dall’altra parte del tavolo.

In un italiano inizialmente incerto e poi via via più scorrevole Rebecca racconta che la settimana scorsa ha partecipato a una seduta spiritica al civico 27 di Jane street, nel Greenwich village, dove secondo la leggenda dal 1804 si aggira il fantasma di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori e primo segretario al tesoro degli Stati Uniti.

Una buona storia

Rebecca – che in realtà si chiama Becky Cooper, ha 28 anni ed è l’editorial assistant del direttore del New Yorker, David Remnick – non è un’appassionata di spiritismo, ma sta indagando sul fantasma di Hamilton per la prossima puntata di New Yorker Radio Hour, un programma radiofonico prodotto dal New Yorker e dalla Wnyc, la radio pubblica più popolare della città. Dal novembre del 2015 ogni settimana Remnick, che a quanto pare non ha mai abbastanza da fare, si intrattiene per un’oretta con giornalisti, scrittori, collaboratori e artisti del suo giornale per parlare di attualità, costume, politica e cultura.

A sinistra Ann Goldstein, direttrice del dipartimento dei copy editor del New Yorker e traduttrice dall’italiano; a destra un corridoio della redazione del New Yorker, marzo 2016.

Becky lavora con Remnick da un anno e mezzo, ma il suo rapporto con il New Yorker risale ai tempi dell’università, quando studiava letterature comparate a Harvard e faceva l’assistente di Adam Gopnik, una delle firme più brillanti del settimanale. In seguito, grazie a una tesi di laurea su David Foster Wallace, è diventata l’assistente di D. T. Max, che stava scrivendo la biografia dello scrittore scomparso nel 2008.

Nel 2013 Becky, che parla anche francese, ha pubblicato un libro di mappe su Manhattan ispirato alle Città invisibili di Calvino. Ma più ancora della letteratura, è stata la cucina a farla innamorare dell’Italia e della sua lingua, che ha imparato anche facendo la pasticcera in Umbria e la contadina in un agriturismo nelle Cinque Terre.

Quando non è in giro a caccia di fantasmi, o a recensire bar come il suo collega Nick, Becky assiste il direttore nel lungo processo di scelta, assegnazione e programmazione degli articoli: legge, vaglia, cataloga e riferisce proposte e idee. Ogni settimana Remnick incontra tre firme del suo giornale, a rotazione, per ascoltare i loro suggerimenti e i loro progetti, che nelle settimane successive potranno essere scartati, accantonati oppure affidati a un giornalista e a un curatore. Story and situation, fatti e circostanze, sono gli ingredienti imprescindibili di una buona storia, spiega Becky.

Ma naturalmente non bastano. E nessuno lo sa meglio di Anna.

Quando è il suo turno, Anna parla a voce bassa e non sbaglia una parola. Il suo italiano non ha la scioltezza di chi lo pratica ogni giorno, ma è preciso e meditato. Racconta del premio che il Jewish book council, un’organizzazione statunitense che incoraggia e sostiene la letteratura ebraica, le ha assegnato per il suo lavoro di curatrice e traduttrice di The complete works of Primo Levi. Ebrea cresciuta senza alcuna educazione religiosa, Ann non è particolarmente fiera del riconoscimento: lo trova più che altro divertente.

Ann è diventata il volto e la voce di una scrittrice che tutti vorrebbero conoscere e intervistare

Anna è Ann Goldstein. Dirige il dipartimento dei copy editor del New Yorker, ma è conosciuta soprattutto per aver tradotto in inglese i libri di Elena Ferrante. Il successo della tetralogia dell’Amica geniale negli Stati Uniti e nel resto del mondo anglofono ha travolto un po’ anche lei, che improvvisamente è diventata il volto e la voce di una scrittrice che tutti vorrebbero conoscere e intervistare. La settimana scorsa, dopo l’annuncio della candidatura dell’Amica geniale nella sezione internazionale del Man Booker international prize e dopo che sul New York Times sono rimbalzate le ultime speculazioni sull’identità di Ferrante, Ann è stata chiamata per commentare le due notizie prima nella redazione newyorchese della Bbc e poi al telefono da una radio neozelandese.

Fino a un paio di anni fa nella sua vita lavorativa c’erano meno imprevisti. La sua carriera di traduttrice è cominciata ufficialmente nel 1992, quando aveva 42 anni e quasi per gioco si mise alla prova su un capitolo di Checov a Sondrio di Aldo Buzzi, e il New Yorker lo pubblicò. Da allora Ann non ha più smesso di tradurre: dallo Zibaldone a Ragazzi di vita, da Ferrante a De Cataldo, da Baricco a Primo Levi, la cui opera completa è uscita negli Stati Uniti l’anno scorso grazie al lavoro di una squadra di traduttori coordinati da lei.

Nella sala delle riunioni del New Yorker, marzo 2016. (Giulia Zoli, Internazionale)

Su una parete dell’ufficio di Ann, che affaccia su una delle due vasche del memoriale dell’11 settembre, è incorniciato un grande poster con la Divina Commedia scritta in caratteri piccoli piccoli. Tutto è cominciato da Dante, e da un gruppetto di redattori del New Yorker che nell’autunno del 1986 decise di prendere lezioni di italiano e di leggere e studiare l’intera opera dantesca. Sono passati tanti anni, gli insegnanti e gli allievi si sono avvicendati, ma la tradizione della lezione di italiano non si è persa, e Ann continua ad andarci anche oggi che è una traduttrice famosa.

Eppure in redazione il lavoro non le manca davvero. Stamattina sulla sua scrivania è arrivato l’articolo più importante del prossimo numero, un reportage di dieci pagine sulla Tunisia. Non è l’unico che dovrà rivedere questa settimana, ma è il più impegnativo. Avrà qualche giorno per rileggerlo, ma dovrà farlo più volte, fino a conoscerlo perfettamente. Non sarà l’unica copy editor dell’articolo, ma sarà lei a chiuderlo, al termine di una riunione che si svolgerà fra tre giorni e in cui saranno proposte e discusse le ultime modifiche: il closing meeting, lo chiamano al New Yorker.

Tutta d’un fiato

Il closing meeting dell’articolo sulla Tunisia si svolge un giovedì pomeriggio, meno di 24 ore prima dell’invio in tipografia, in una stanza simile a quella della lezione di italiano, ma nell’ala opposta della redazione. Oltre ad Ann partecipano due dei tre fact checker che hanno lavorato sul pezzo e l’editor, cioè il curatore dell’articolo. L’autore non è presente: è a Kabul, in Afghanistan, dove al momento della riunione sono le due del mattino. La sua voce esce da un iPhone in modalità vivavoce posato al centro del tavolo. Anche lui, come gli altri, ha davanti agli occhi una copia in pdf del suo articolo impaginato.

Pronti, via: la riunione comincia e va avanti tutta d’un fiato, a ritmo serratissimo. Si parla a turno, sempre nello stesso ordine, e si scorre il pezzo dall’inizio alla fine. Pagina uno: una fact checker chiede di cambiare un numero al terzo paragrafo della seconda colonna, l’altra di inserire una precisazione tre righe più sotto, l’autore vuole spiegazioni, l’editor lo rassicura, Ann non ha obiezioni. Richiesta accolta: Ann la segna con la matita al margine della sua copia e il giro riparte.

A sinistra Mary Norris, copy editor al New Yorker; a destra una copia di un articolo con le ultime correzioni a matita, marzo 2016.

Al secondo sfoglio è lei a correggere un’incongruenza, poi è l’autore a chiedere di sostituire un aggettivo, una fact checker si oppone, è giusto così. Richiesta respinta. Pagina tre: l’editor vuole tagliare due righe ridondanti, le fact checker non hanno niente in contrario, l’autore approva, Ann concorda, segna con la matita, si va avanti. Pagina quattro, cinque e via così. Senza perdere il ritmo, con la massima concentrazione, mai una parola di troppo. Sembra la scena di un film, una sceneggiatura ben scritta. Con un cameo quando David Remnick apre la porta senza preavviso, fa capolino, butta lì una battuta, richiude e se ne va.

I closing meetings possono essere lunghi e carichi di tensione, ma questo procede senza intoppi: in poco più di mezz’ora è tutto finito. Ann torna nel suo ufficio con i fogli pieni di segni a matita e si mette al lavoro. Domani sera tutto il giornale sarà pronto per la stampa, la versione digitale, il sito. La settimana di Ann, però, non finisce il venerdì. Da anni le traduzioni occupano tutti i suoi weekend, i ritagli di tempo e le ferie, che trascorre il più possibile in Italia.

L’ultimo a prendere la parola alla lezione di italiano è Aldo, un signore anziano con gli occhiali spessi. Si esprime con fatica, ma si fa capire. Racconta che due settimane fa ha trascorso una serata a casa di amici per seguire in diretta tv la cerimonia degli Oscar. Anche i suoi amici ogni anno proclamano un vincitore, che naturalmente è chi indovina il maggior numero di Oscar. Aldo è arrivato ultimo, e la cosa lo diverte molto.

Il suo vero nome è Alan, e a differenza dei suoi compagni di classe non lavora al New Yorker né ci ha mai lavorato. Ma ormai in redazione è di casa. Ha chiesto di partecipare alla lezione quattro anni fa, quando ne ha sentito parlare da una giornalista che conosce e che lavora qui.

È stato accolto ed è rimasto, e ogni lunedì si presenta in questo ufficio ipermoderno al 38º piano del quarto grattacielo più alto del mondo, nella redazione di un giornale illustre che vende più di un milione di copie, per chiacchierare in italiano con due ragazzi che potrebbero essere suoi nipoti, una traduttrice di successo, l’autrice di un libro sulla grammatica inglese e un italiano doc, che a 37 anni è felice di andare in vacanza con mamma e papà.

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