Era una mattina come tante altre, a Palermo. E come ogni mattina, intorno alle 7.50, il boss Giuseppe Dainotti era uscito di casa e si era messo in sella alla sua bicicletta, con tanto di cestino per la spesa e portazainetto. Ogni giorno, infilando via d’Ossuna, nel cuore del quartiere Zisa, pedalava fino al suo bar, poco distante da lì. Una pedalata di 500 metri che, da quando aveva messo piede fuori del carcere, poco più di un anno fa, era diventata una salutare consuetudine, interrotta da due colpi di pistola, uno al torace e uno alla testa.
Ancora assonnati, i residenti faticavano a capire cosa fosse successo. Il corpo senza vita di Dainotti giaceva da dieci minuti in una pozza di sangue e in tanti avevano confuso l’eco dei colpi di pistola con i fuochi d’artificio che i ragazzi del quartiere fanno scoppiettare a qualsiasi ora del giorno. Mai avrebbero immaginato che cosa nostra fosse tornata a colpire impugnando una calibro 44, proprio come ai vecchi tempi. D’altronde, a Palermo la mafia non premeva il grilletto da tre anni, due mesi e dieci giorni.
Quel giorno la città era tutta un fermento. Era il 22 maggio 2017 e mancavano ormai poche ore alle celebrazioni del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci in cui furono uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della loro scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Ancora oggi, dai piani alti dell’antimafia non escludono le coincidenze e avvertono che la mafia in Sicilia è viva e vegeta, semmai qualcuno se ne fosse scordato.
Questo omicidio sembra però raccontare un’altra storia. Un racconto difficile da inquadrare nella retorica di chi ancora oggi rappresenta la Sicilia stretta dall’abbraccio mortale di una mafia di quarto livello, più forte e imprevedibile di prima. Sia chiaro, cosa nostra non è morta. I boss controllano ancora molte delle attività commerciali ed economiche sull’isola. Ma la verità è che, se guardiamo ai numeri e ai fatti, la mafia siciliana, che pure continua a ispirare registi e produttori di film e serie tv, non è mai stata così debole. Schiacciata dalla crisi, decimata dagli arresti e dai pentiti, imbottita di spie e microspie, a corto di soldi e soldati, orfana di capi e costretta a dividere gli affari con le nuove gang straniere, cosa nostra non è di certo più la stessa.
La crisi economica
I numeri, dicevamo. Bisogna elencarne alcuni che funzionano da premessa a tutti gli altri. Dal 1990 a oggi la polizia ha arrestato più di quattromila mafiosi siciliani, più di 200 si trovano sotto il regime carcerario del 41bis. Secondo la relazione 2015 della direzione investigativa antimafia (Dia), l’esercito di cosa nostra nella provincia di Palermo è composto da 2.366 uomini. Un elenco redatto agli inizi del 1999 dagli inquirenti ne contava più di tremila. Gli omicidi commessi da cosa nostra nel 1992 furono 152, nel 2007 erano nove, zero nel 2016.
Passiamo ora ai dati che delineano la crisi economica della mafia siciliana. Le inchieste della procura di Palermo hanno svelato l’uso sempre più diffuso del “pizzo a rate”: i boss oggi sono costretti a chiederlo a rate e ad abbassare le pretese, chiedendo cifre “modeste” agli imprenditori, con il rischio sempre maggiore di essere denunciati.
“È molto probabile che questa mafia sia la mafia più debole mai esistita in Sicilia”, spiega Salvatore Lupo, docente all’università di Palermo e autore con Giovanni Fiandaca del libro La mafia non ha vinto. “In tanti paragonano la situazione attuale di debolezza di cosa nostra con quella patita dai padrini durante il fascismo. Ma non è così, perché quella mafia godeva di molta più autorità”, dice Lupo. Oggi lo stato ha conseguito risultati senza precedenti anche rispetto all’azione molto celebrata, ma in realtà blanda, del periodo fascista. Lo dico da storico che ha studiato quelle vicende a fondo. La pressione e la crisi che sta subendo cosa nostra negli ultimi anni è qualcosa che i boss non avevano mai sperimentato, nemmeno con il prefetto Cesare Mori, inviato in Sicilia da Mussolini”.
Gli incontri tra certi mafiosi somigliano più a delle terapie di gruppo che a riunioni criminali
L’ultimo rapporto sui ricavi delle mafie in Italia risale al 2013 e porta la firma del centro interuniversitario Transcrime e dell’università Cattolica di Milano. Secondo i calcoli dei ricercatori, nel 2007 cosa nostra aveva guadagnato con i suoi affari illeciti in tutta Italia circa 1,87 miliardi di euro. Non sono spiccioli, eppure sembrano briciole se paragonati ai ricavi degli anni novanta, quando solo a Palermo il business della mafia superava i due miliardi. Il paragone con il business delle altre associazioni criminali è impietoso: la ’ndrangheta calabrese ogni anno porta a casa 3,49 miliardi di euro, i camorristi napoletani 3,75. Praticamente il doppio dei guadagni dei criminali siciliani.
Colpa della crisi, dicono a Palermo. Negli anni d’oro della mafia, il sindaco Vito Ciancimino rilasciò nel capoluogo siciliano 4.500 concessioni edilizie (2.500 delle quali a tre pensionati prestanome). Allora il giro d’affari dell’edilizia mafiosa faceva girare in città tremila miliardi di vecchie lire.
Non ricordatelo ai boss della famiglia di Villagrazia: i loro incontri al vertice, intercettati dalle miscrospie dei carabinieri, somigliano più a delle terapie di gruppo che a riunioni criminali per pianificare affari illeciti. “Ma che minchia di mafia siamo?”, si lamentava nel marzo del 2016 l’allora direttore di sala del teatro Massimo, Alfredo Giordano, per non essere riuscito nemmeno a ritrovare delle cose che avevano rubato alla figlia. “La mafia di… di… di… delle cause perse”, diceva.
A parlare sono mafiosi che negli anni ottanta giravano per le strade di Palermo in Mercedes, gente che con un cenno decideva della vita e della morte di poliziotti e traditura; e che oggi è costretta a risparmiare anche su uno dei capitoli di spesa più importanti per la mafia siciliana, quello dei soldi da dare alle famiglie dei carcerati. Dieci anni fa, gli “stipendi” alle mogli dei boss sfioravano anche i cinquemila euro al mese. Con i primi segnali di crisi, erano scesi a 1.500.
Dainotti, il boss in bicicletta, quando era in galera si lamentava perché i soldi ai suoi familiari arrivavano a singhiozzo. Oggi è sua nipote a lamentarsi. Intercettata, Anna Lo Presti dice al marito, il boss Salvatore Pispicia: “Cento euro gliel’ho dati a mia madre per fargli la spesa, duecento l’ho portati al dentista, quanto restano… mi sono rimasti gli spicci”.
“Spicci” anche per la moglie di Benedetto Capizzi, uno dei capi storici della cupola: “Qualche cosa in più si deve mandare alla moglie di Benedetto”, si sente dire al capomafia Mariano Marchese in un’intercettazione del 2016, “è assai che non gli mandiamo soldi. Perché se no, minchia, è vergogna”. E Francesco Adelfio, uno dei boss di Villagrazia, rispondeva nostalgico: “Ti ricordi con la buonanima di Stefano?”. Stefano era il boss dei boss, Stefano Bontate, il “principe di Villagrazia”, una delle figure chiave nella storia di cosa nostra, in grado di stringere legami con mafiosi d’oltreoceano e politici italiani.
Addio al monopolio sulla droga
Altri tempi, gli anni di Bontate, gli anni settanta, quando la droga si faceva in casa, con la morfina acquistata in Svizzera, trasportata via mare a Palermo e qui lavorata nelle centinaia di raffinerie nascoste in provincia. All’epoca, il 30 per cento dell’eroina consumata negli Stati Uniti era made in Sicily. Ne sa qualcosa Sergio Lari, attuale procuratore generale a Caltanissetta, per dieci anni alla direzione distrettuale antimafia (Dda) di Palermo e responsabile delle indagini sulle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Nel 1993 seguì l’inchiesta che portò all’arresto di complici e custodi della famigerata raffineria di eroina di contrada Virgini, ad Alcamo, il più grande laboratorio di droga mai esistito in Sicilia.
“Se dovessimo disegnare un grafico sulla potenza militare ed economica di cosa nostra dall’inizio del secolo a oggi”, spiega Lari, “il punto più alto di quella curva si tocca nella metà degli anni ottanta. Poi, dai primi anni novanta, tra alti e bassi, la curva scenderebbe giù, fino ai giorni nostri, dove si registrano i livelli più bassi. Uno degli esempi è proprio la droga, dove si è passati dal monopolio assoluto di cosa nostra ad accordi bilaterali e subordinati con altre organizzazioni che passano spesso dalla criminalità calabrese”.
Quando i conti in rosso attanagliano gli affari dei boss, i boss puntano sulla droga per rimanere a galla. Ma ormai la storia ha spostato gli equilibri al di là dello stretto di Messina. Le tonnellate di cocaina riversate nelle strade di Palermo e Catania, come dimostrano le recenti inchieste, passano ora dalle province di Reggio Calabria, Cosenza e Crotone. Sono i capibastone della ’ndrangheta che volano a Bogotá in Colombia e ad Acapulco in Messico. E tra un bagno in piscina e un mojito in spiaggia, stringono accordi con i narcos. Controllano porti e cargo, e poi rivendono tutto ai siciliani.
Le black axe
Ai boss dell’isola non resta che gonfiare il petto e fare la voce grossa con le nuove gang straniere che hanno invaso la regione, alle quali cosa nostra ha concesso la possibilità di vendere droga nei loro territori. Primo tra tutti Ballarò, il più tradizionale dei quartieri di Palermo, cuore pulsante della palermitanità e storica roccaforte del potere mafioso in città.
Di giorno è un coloratissimo mercato a cielo aperto, affollato da clienti e turisti, tutti a far la fila davanti alle bancarelle che sfoggiano tonni e quarti di bue appesi ai ganci delle macellerie e delle pescherie.
Poi, al calar sole, lentamente si trasforma. Giusto il tempo di abbassare le saracinesche, di ritirare la merce e il più antico mercato di Palermo diventa il più grande supermercato della droga in Sicilia. Hashish, cocaina e marijuana prendono il posto di frutta e verdura. Qui, da qualche tempo, una fetta degli affari è in mano a criminali stranieri, primi tra tutti i nigeriani. Una novità che non è piaciuta a molti.
All’inizio, circa tre anni fa, i rapporti furono complicati. Alcuni delinquenti nigeriani furono massacrati di botte e sfigurati a colpi di machete sia da palermitani sia dai loro stessi connazionali. Poi, piano piano, tutto si risolse in una pacifica convivenza, con i boss locali che hanno concesso ai nuovi arrivati il diritto allo spaccio nelle loro piazze. In cambio le gang africane hanno aperto le porte dei loro retrobottega, e spesso delle loro stesse abitazioni, per immagazzinare la droga di cosa nostra.
Nel 2016, per la prima volta, un tribunale siciliano ha riconosciuto l’esistenza sull’isola di una mafia straniera. La black axe, nota gang nigeriana, oggi è uno dei maggiori rompicapo per le autorità europee.
“È chiaro che in Sicilia i nigeriani sono subordinati ai siciliani”, spiega Leonardo Agueci, procuratore aggiunto a Palermo e responsabile dell’indagine sulla criminalità nigeriana, “e che se qualcuno di loro si azzardasse a ribellarsi alle gerarchie dei palermitani, sarebbe eliminato. Ma questa inchiesta rappresenta in ogni caso un’assoluta novità. In Sicilia adesso lavora una struttura criminale straniera, che si sta peraltro espandendo. Tutto ciò sarebbe stato impensabile in passato”.
I vecchi e i giovani
La verità è che il siciliano non è più l’unica lingua dei criminali in Sicilia. Nel mondo dell’illegalità si parla romeno, georgiano, nigeriano e perfino cinese. Una situazione inimmaginabile fino alla fine degli anni ottanta. In quel periodo cosa nostra faceva paura. Nomi come quelli di Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella bastavano a terrorizzare chiunque. Per non parlare di quello di Totò Riina, temuto soprattutto dagli altri boss.
Oggi, alcuni mafiosi siciliani, lo vorrebbero morto e sepolto. “Se non muoiono tutti e due (Riina e Provenzano, ndr), luce non ne vede nessuno”, dice a basa voce Santi Pullarà, figlio di Ignazio, storico reggente del clan di Santa Maria di Gesù, durante una discussione sull’ennesima crisi di salute dei criminali corleonesi. “Lo so, non se ne vede lustro”, ribatte a quel punto sconsolato lo “zio Mari’’, cioè Mario Marchese, considerato l’ultimo capomafia di Villagrazia. “E a questi due niente li frega”, aggiunge sconfortato. Come a dire che per rilanciare cosa nostra, bisognerebbe esonerare presidente e allenatore.
Provenzano è morto a 83 anni il 13 luglio del 2016. Riina a 87 anni è in carcere, malato. Tuttavia, nonostante le sue condizioni di salute, secondo gli esperti sarebbe ancora oggi in cima alla catena di comando di cosa nostra.
Chi potrebbe prendere il posto di Totò Riina? Non tutti sono d’accordo su Matteo Messina Denaro
“Formalmente rimane il capo assoluto”, afferma Lari, che nel 2010 si trovò faccia a faccia con il mafioso corleonese, “è chiaro però che diventa difficile pensare che il boss sia ancora in grado nelle sue condizioni fisiche di gestire gli affari dell’associazione criminale, soprattutto dentro un carcere”.
Chi potrebbe prendere il suo posto? Rosalba Di Gregorio, tra le più rinomate avvocate palermitane, che ha difeso Provenzano e Dainotti ai tempi del maxiprocesso, descrive una “mafia allo sbando”, fatta di “personaggi che ai tempi del maxi si faceva fatica a chiamare boss”. “Sono uomini che quando escono dal carcere”, spiega Di Gregorio, “davanti al panorama delinquenziale di oggi si danno arie da padrini. Si atteggiano a boss. La verità è che questa non è più cosa nostra”. Il procuratore Agueci parla di uomini d’onore con uno spessore umano e un carisma molto ridimensionato rispetto ai vecchi mafiosi e aggiunge: “In questo contesto diventa più difficile scegliere un capo”.
La priorità per le autorità italiane rimane l’arresto del boss trapanese Matteo Messina Denaro, che proprio Riina avrebbe voluto come suo successore e che oggi è rappresentato spesso come una sorta di super padrino, sanguinario e spietato, che tiene in mano le redini criminali della Sicilia. Ma non è esattamente così.
“Messina Denaro è l’ultimo dei mohicani della vecchia mafia”, dice Lari, “capo del mandamento di Castelvetrano e probabilmente padrino dell’intera provincia di Trapani. Ma di certo non è il capo di cosa nostra. Innanzitutto, perché non è palermitano, e quella carica spetta in genere ai palermitani. E poi perché la cupola in Sicilia non esiste più”.
“A prescindere dalla pericolosità del boss, è anche questa una ricostruzione retorica dei mezzi d’informazione”, spiega Lupo. “Si pensa alla sua cattura come alla battaglia per far crollare l’ultimo feudo di cosa nostra, ma Messina Denaro non è nemmeno riconosciuto da molti dei boss siciliani”.
In effetti, già nel 2015, i boss di Trapani meditavano il suo “licenziamento”. Fatto più che raro per cosa nostra, dove contestare apertamente il ruolo di un boss, peraltro a piede libero, è una mancanza di rispetto punibile con la condanna a morte. Eppure, i boss Giuseppe Tilotta e Giuseppe Bongiorno non sembravano impensieriti da questa conseguenza quando nel 2015 le cimici piazzate dagli inquirenti registrarono il loro malcontento: “Ma anche questo, questo ci fa arrestare tutti e pensa solo ai fatti suoi. Che minchia fa? Un cazzo! Si fa solo la minchia sua…”.
Ritorno alle origini
Senza capi né soldi, con la strada sbarrata dalle cimici e dai pentiti, alcuni sono tornati alle origini. Lontano dal cemento di Palermo, dal traffico, dalla movida, nascosti tra le verdi montagne dei Nebrodi, tra i boschi e i pascoli delle Madonie, tra le colline del Vallone, un gruppo di vecchi e nuovi boss tenta di ripartire da zero, dalle campagne, dove tutto era cominciato. Furti di macchinari agricoli e di bestiame, incendi, racket sulla macellazione. La chiamano “mafia del bestiame”, la nuova mafia che torna a quella più vecchia.
“È come se cosa nostra”, spiega Lari, “spinta dalla crisi del cemento e degli appalti, si fosse ritirata nelle campagne, e lontano dalla pressione delle autorità nelle grandi città sembra aver trovato un rifugio sicuro per continuare affari sensibilmente ridotti”.
Eppure, nonostante tutto questo, come ha scritto Massimo Bordin, “si continua a ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino osservando la realtà del nostro paese come ancora attanagliata dalla presenza pervasiva di cosa nostra che i due eroici magistrati hanno combattuto con efficacia a prezzo della loro vita”, con l’effetto ingiusto di “non rendere certo loro quello che meritano”.
Ci sono voluti più di quarant’anni per costringere la mafia delle raffinerie d’eroina, della pizza connection, degli appalti e degli omicidi quotidiani, ad abbassare la cresta. Quarant’anni di arresti, inchieste, battaglie e vittime, per costringere i boss ad arretrare. Forse, dopo quarant’anni, è arrivato il momento di ammettere che la mafia che girava con automobili di lusso e comprava ville, oggi, come Dainotti, si muove e muore in bicicletta. E dai boss in doppiopetto siamo agli annacati, gente che compie il massimo del movimento con il minimo risultato, gente che ondeggia, che si annaca come in una danza: macabra, ma inefficace, per fortuna.
Da leggere
- Storia della mafia, Salvatore Lupo.
- Mafia republic: cosa nostra, camorra e ’ndrangheta dal 1946 a oggi, John Dickie.
- “La mafia è dappertutto”. Falso, Costantino Visconti.
- Padrini e padroni. Come la ’ndrangheta è diventata classe dirigente, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso.
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