Una strada separa l’area industriale di Ravenna dalla pialassa, la laguna romagnola dove si mescolano acqua dolce e salmastra. Qua il petrolchimico, là i fenicotteri; di fronte il mare Adriatico con le piattaforme per l’estrazione del gas. E oggi tutto questo – il petrolchimico, la laguna, i pozzi off shore – è la scena di una battaglia che va ben oltre questa città romagnola: è in gioco come produrre e consumare energia in Italia nei decenni a venire. In concreto, come spendere i soldi destinati al rilancio del paese dopo la pandemia.
L’oggetto di questa battaglia ha un nome complicato: “Cattura e stoccaggio di carbonio”, abbreviato in Ccs. È un sistema per captare i fumi emessi da impianti industriali, separare l’anidride carbonica da altri gas, convogliarla in un impianto di raccolta, infine iniettarla nei giacimenti di idrocarburi ormai esauriti che si trovano di fronte alla costa adriatica. A proporlo è l’Eni, che lo descrive in termini avveniristici: una soluzione per intrappolare uno dei principali gas “di serra” responsabili del cambiamento climatico e impedire che si accumuli nell’atmosfera.
Nelle intenzioni della multinazionale italiana quello di Ravenna sarà il più grande impianto del genere in Europa, e un “hub” per il sud Europa e il Mediterraneo. L’Eni afferma che costerà circa due miliardi di euro, e per realizzarlo cerca finanziamenti pubblici. Per questo il progetto è candidato ai bandi del Fondo europeo per l’innovazione e soprattutto al piano nazionale di ripresa e resilienza, spesso indicato come recovery fund: circa 209 miliardi di euro di cui il 37 per cento sarà destinato alla “transizione ecologica” per combattere il cambiamento del clima.
Una città divisa
Ma la Ccs è davvero un modo per combattere il cambiamento del clima? Molti dissentono. Tecnologia incerta e costosa, quella di “catturare e stoccare” l’anidride carbonica è una falsa soluzione, sostiene un appello promosso lo scorso dicembre da un ampio schieramento di esperti e di associazioni ambientali dell’Emilia-Romagna. Dice che “sviluppare la Ccs significa investire miliardi di euro pubblici” che andrebbero meglio usati per “un radicale cambiamento delle politiche energetiche del nostro paese”.
Sta di fatto che il progetto dell’Eni è stato annunciato con grande enfasi nel giugno del 2020 dall’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte. Successivamente, il centro di cattura e stoccaggio di anidride carbonica a Ravenna è entrato e uscito dalle bozze del piano nazionale di rilancio e resilienza. La versione datata 29 dicembre 2020 gli attribuiva un finanziamento di 1,35 miliardi di euro, cosa che ha suscitato molte polemiche; la bozza circolata in gennaio non lo cita in modo esplicito. E però il progetto resta sul tavolo, forse solo in modo più discreto. Di certo l’Eni, che di recente ha ottenuto la commessa per costruire un impianto analogo nella baia di Liverpool, nel Regno Unito, sul progetto di Ravenna continua a puntare.
Ravenna è divisa. A cosa affidare il rilancio della città e delle sue attività economiche? Per capire aspettative e critiche, eccoci nella città romagnola. E la prima tappa è inevitabile: la zona industriale che sorge tra la città e la costa adriatica, lungo un canale che funge da porto.
Si susseguono depositi di carburante, i serbatoi di olio di soia, la centrale elettrica, le cisterne di gpl per le navi
“Qui tutto ciò che l’Eni propone viene accolto senza fiatare”, dice polemico Lorenzo Mancini, della segreteria regionale di Legambiente, che mi accompagna in questa ricognizione. “Nella storia dello sviluppo industriale di questa città l’Eni è sempre stata padrona”, continua. La storia recente di Ravenna in effetti ruota attorno agli idrocarburi, e la geografia urbana lo testimonia. Per uscire dalla città imbocchiamo via Enrico Mattei, l’imprenditore che era stato partigiano e che dopo la seconda guerra mondiale riorganizzò l’Agip e nel 1953 fondò l’Eni, Ente nazionale idrocarburi, facendone un’azienda di statura mondiale.
Superiamo il Villaggio Anic (dal nome della prima impresa chimica del gruppo Eni), costruito negli anni sessanta per alloggiare operai e quadri del polo petrolchimico, allora in piena espansione.
Poi imbocchiamo via della Chimica e infine via Baiona, e procediamo tra le fabbriche da un lato, la pineta e la pialassa dall’altro. Il vecchio petrolchimico dell’Enichem resta in gran parte attivo, anche se frammentato in varie aziende con diverse proprietà. La Versalis (gruppo Eni) che produce elastomeri, cioè gomma artificiale; lo stabilimento Marcegaglia che lavora l’acciaio, la Alma Petroli. Si susseguono depositi di carburante, i serbatoi di olio di soia della Bunge, la centrale elettrica Teodora dell’Enel (alimentata a gas). Poi le nuovissime cisterne di gas naturale liquefatto dell’azienda Petrolifera Italo-Rumena (servirà ad alimentare le navi, sostituendo gli oli combustibili).
L’energia del gas e quella del vento
Negli anni cinquanta, quando l’Agip di Mattei scoprì un giacimento di gas naturale al largo della costa romagnola, il metano sembrava l’energia “pulita” del futuro, di gran lunga meno inquinante del petrolio o del carbone. Oggi il sindaco di Ravenna Michele De Pascale sostiene che bisogna partire proprio da qui: “Grazie a quei giacimenti la città ha sviluppato una importante capacità tecnologica sull’industria energetica, prima con l’Eni e poi con le imprese che costruiscono piattaforme off shore e impianti a mare, che ormai sono riconosciute e lavorano in tutto il mondo”. Certo “oggi non possiamo dire che il metano sia una fonte pulita, è pur sempre uno dei combustibili fossili che alterano il clima”, riconosce il sindaco (che ho intervistato in videochiamata l’11 febbraio scorso). Ma resta una fonte necessaria a garantire la “transizione ecologica”, sostiene De Pascale, perché in attesa di passare del tutto alle fonti rinnovabili, il gas naturale resta preferibile al petrolio o al carbone: “E finché lo usiamo, meglio estrarlo dai nostri giacimenti piuttosto che importarlo”.
Il sindaco di Ravenna si dichiara favorevole all’impianto di “cattura e stoccaggio” di anidride carbonica proposto dall’Eni, e anche all’ipotesi di produrre idrogeno dal metano: “Anche questo serve alla transizione”, sostiene. Qualche tempo fa si era spinto ad affermare che “la città è unanime” a favore del Ccs; ora riconosce che quel progetto in effetti trova opposizioni. Ma tiene a precisare che “la città di Ravenna ha due progetti per il futuro: uno è quello dell’Eni; l’altro è un grande parco eolico off shore”.
Il sindaco si riferisce al progetto chiamato Agnes, che ruota attorno all’energia del vento e a quella del sole: dunque fonti rinnovabili. Presentato formalmente il 18 febbraio, sarà composto da due gruppi di grandi turbine piantate nei fondali per produrre elettricità sfruttando la forza del vento, rispettivamente a otto e a dodici miglia dalla costa, a cui si aggiunge un impianto galleggiante per l’energia solare. L’insieme sarà capace di produrre 620 megawatt di energia; vi si aggiungerà una piattaforma per trasformare l’acqua marina in idrogeno (acqua ed energia solare: quindi idrogeno “verde”).
Il progetto fa capo al gruppo Qint’x, azienda di Ravenna specializzata in impianti fotovoltaici ed eolici, che di recente si è messa in consorzio con la Saipem, società di ingegneria e infrastrutture per l’industria petrolifera. Il costo previsto si aggira sul miliardo di euro. “È un progetto innovativo, abbiamo disegnato pale eoliche specialmente adattate per sfruttare il basso regime dei venti dell’Adriatico”, spiega Alberto Bernabini, progettatore di Agnes. “Inoltre sarà il primo impianto fotovoltaico galleggiante nel Mediterraneo, e il primo polo che combina diverse fonti rinnovabili”.
L’impianto di “cattura e stoccaggio” invece dovrebbe sorgere nella zona di Porto Corsini, al limitare dell’area del petrolchimico, separata da Marina di Ravenna dal canale-porto industriale. Secondo l’Eni l’impianto userebbe infrastrutture e impianti già esistenti a terra; l’anidride carbonica compressa sarebbe poi iniettata nel giacimento sottomarino denominato Porto Corsini Mare Ovest, oggi vicino a esaurimento. L’Eni calcola che i giacimenti fuori costa dell’area ravennate possano immagazzinare in totale tra 300 e 500 milioni di tonnellate di anidride carbonica compressa. Fonti aziendali affermano che nella prima fase “pilota” l’impianto potrebbe raccogliere le emissioni dello stabilimento Versalis e della centrale a gas di Casal Borsetti, poco più a nord sulla costa, di proprietà dell’Eni; in seguito potrebbe diventare una “piattaforma aperta” e raccogliere le emissioni di altre imprese e centrali termiche della regione.
Il sindaco De Pascale riassume così: “Il parco eolico rappresenta il futuro post-transizione. Ma il centro di cattura e stoccaggio serve alla transizione energetica perché può ripulire le emissioni di industrie sporche ma pur sempre necessarie come la gomma, l’acciaio o il cemento”.
Ma cosa vuol dire “transizione”?
“Quanti anni sono che sentiamo parlare di transizione energetica?”, sbuffa Mauro Savorani, già ingegnere elettronico, e da quando è in pensione guardia ecologica volontaria e attivista ambientale. Con Lorenzo Mancini ci guida tra le fabbriche, la pineta e la pialassa; parla di pescatori di vongole di frodo, e di vecchie navi abbandonate a contaminare la laguna.
“Trenta o quarant’anni fa si poteva dire che il metano serve alla transizione”, insiste Savorani, “ma ormai non ha senso”. Quelli della sua generazione ricordano che anni fa la città di Ravenna si era divisa sulla proposta di una nuova centrale elettrica alimentata a carbone. Di fronte alle opposizioni diffuse e al nascente movimento ambientalista, il governo optò infine per una centrale a metano, meno inquinante.
“Era il 1983: allora il gas rappresentava in effetti la transizione, perché le energie rinnovabili erano ancora poco sviluppate”, ricorda Giuseppe Tadolini, che a Ravenna coordina la Campagna per il clima, fuori dal fossile, una rete di associazioni e forze ambientaliste: “Ma poi le tecnologie sono avanzate. Oggi abbiamo già una produzione rilevante di energia fotovoltaica, le pale eoliche sono un’alternativa praticabile, esistono accumulatori per sfruttare appieno le fonti rinnovabili. Su questo dobbiamo investire”.
È questo il punto. “È illogico continuare a usare combustibili fossili emettendo anidride carbonica per poi spendere soldi ed energia per riprenderla, quando abbiamo ormai le tecnologie per non produrla affatto”, fa notare Vincenzo Balzani, chimico, professore emerito all’università di Bologna, membro dell’Accademia dei Lincei. “Quella di cattura e stoccaggio è una tecnologia che consuma a sua volta parecchia energia”, spiega. Poi bisogna considerare i rischi: “Non sappiamo cosa può succedere se iniettiamo anidride carbonica compressa in zone sismiche come è la penisola italiana, e con forte subsidenza come la costa di Ravenna”. Subsidenza, l’abbassamento del suolo e dei fondali marini provocato sia da fenomeni naturali sia da attività umane: Ravenna ci convive da secoli, ma ci sono fondati sospetti che l’estrazione di gas abbia aggravato il fenomeno.
Insomma, la “cattura e stoccaggio” è impresa incerta e costosa, insiste Balzani, “mentre le principali fonti rinnovabili ormai producono energia a costi concorrenziali”. Dipende molto da quale strategia economica si vuole perseguire, aggiunge Alberto Bellini, docente dell’università di Bologna e portavoce del gruppo di ricerca Energia per l’Italia (di cui Balzani è il presidente). Osserva che la Norvegia finanzierà la costruzione di un impianto di cattura e stoccaggio per limitare l’impatto di un cementificio e di un inceneritore, ma poiché è un’impresa costosa lo finanzia con la carbon tax. Mentre negli Stati uniti, in Texas, un simile impianto annesso a una centrale a carbone ha chiuso proprio perché era troppo costoso. Insomma: “Non è corretto partire da cattura e stoccaggio per fare una transizione energetica”.
Il progetto Agnes, con le pale eoliche e il fotovoltaico galleggiante, potrebbe entrare in esercizio nel 2023 se arriveranno le dovute autorizzazioni. “La procedura dovrebbe durare tre anni, ma spesso i tempi si allungano. La realtà è che in Italia sono stati presentati finora oltre venti progetti off shore relativi a fonti rinnovabili, e uno solo è stato autorizzato dopo una procedura durata nove anni”, osserva Alberto Bernabini. “Il nostro progetto è innovativo e siamo stati contattati da altri paesi interessati a realizzarlo. Sarebbe un paradosso che non riuscissimo ad avviarlo qui. Tra qualche anno altri faranno queste stesse cose e noi rischiamo di restare indietro”. Invece, “per il progetto di cattura e stoccaggio è prevista una procedura rapida. Mi domando perché le rinnovabili siano penalizzate”.
Procedure semplificate
In effetti, un emendamento al “decreto semplificazioni”, approvato nel settembre 2020 su proposta del senatore Stefano Collina, romagnolo, stabilisce che “in attesa di individuare i siti” per lo stoccaggio di anidride carbonica … “siano considerati in via provvisoria idonei i giacimenti di idrocarburi esauriti” nelle acque territoriali. Fa proprio al caso del Ccs a Ravenna.
L’Eni non ha ancora avviato una formale richiesta di autorizzazione per il suo centro di cattura e stoccaggio di anidride carbonica a Ravenna: “Sta lavorando alla predisposizione dell’istanza autorizzativa”, precisa l’ufficio stampa. È chiaro però che il progetto dipende da un adeguato finanziamento pubblico. La principale attività dell’Eni resta l’estrazione di gas e petrolio, priorità dei suoi investimenti e principale fonte dei suoi circa 70 miliardi annui di fatturato.
La multinazionale italiana prevede di aumentare l’estrazione di petrolio e gas fino al 2025, poi diminuire gradualmente il petrolio a favore del gas, di cui ha in concessione alcuni dei giacimenti più importanti in Africa e in Medio Oriente. Anche l’Eni però, come molte grandi aziende dell’energia, ha riformulato la sua strategia e si impegna a raggiungere “zero emissioni di anidride carbonica” entro il 2050. Per questo investe anche in energie rinnovabili e spinge sui progetti di “cattura e stoccaggio”. O sulla produzione di idrogeno, che alcuni vedono come un combustibile del futuro: dipende però se prodotto a partire dal metano, o dall’acqua.
Molti sono convinti che il principale obiettivo del progetto di Ccs a Ravenna sia proprio l’idrogeno “blu”. In sintesi estrema: l’Eni punta a produrre idrogeno trasformando il gas metano; un processo che consuma molta energia e provoca emissioni di carbonio, che però potrebbero essere “catturate” e messe sotto terra. L’azienda ipotizza anche di riutilizzare l’anidride carbonica catturata (così il progetto diverrebbe “cattura, utilizzo e stoccaggio”, Ccus); tuttavia non sono chiari i dettagli sulla sicurezza e la sostenibilità economica del progetto, ancora prima di quella ambientale. In effetti l’Eni non fa stime sul costo per tonnellata di anidride carbonica stoccata.
Se e in che misura i programmi europei finanzieranno l’idrogeno “blu” nel quadro della transizione energetica è questione aperta; preme in questo senso una lobby di aziende del gas e dell’energia, registrata con il nome Hydrogen Europe. In effetti “la strategia europea sull’idrogeno varata dalla Commissione europea nel luglio 2020 è molto vicina alle richieste della lobby”, rileva un rapporto dell’organizzazione italiana Re:Common. Secondo Alessandro Runci, di Re:Common, “è inaccettabile che risorse pubbliche siano destinate a progetti inutili e dannosi” come la cattura e stoccaggio di carbonio.
Come spendere i soldi della “ripresa”
Così torniamo alla domanda: è questo il modo migliore di investire il denaro del piano di rilancio e resilienza? “Perché dovremmo investire due miliardi di denaro pubblico in un’opera simile?”, si chiede Lorenzo Mancini.
Tornata nel centro di Ravenna giro la domanda ad Alessio Vacchi, segretario della federazione dei lavoratori chimici e dell’energia (Filctem) della Cgil. “Siamo favorevoli a verificare il progetto della cattura e stoccaggio di anidride carbonica”, risponde, “perché abbiamo bisogno di investimenti e perché il progetto dell’Eni va nel senso giusto: abbattere le emissioni di gas di serra, favorire la transizione energetica”. Nel suo ufficio presso la camera del lavoro, Vacchi è preoccupato: “Ravenna è un centro di eccellenza per le tecnologie off shore. Ma i nostri lavoratori specializzati vanno a lavorare all’estero perché da noi le attività estrattive sono ferme. Senza investimenti adeguati perderemo questo patrimonio di professionalità”.
Dal suo punto di vista è stato un grande disappunto scoprire che l’ultima bozza del piano nazionale di rilancio e resilienza non cita in modo esplicito il progetto dell’Eni a Ravenna: “Non si può annunciare un progetto con tanta enfasi e poi farlo scomparire. Il paese ha bisogno di una seria politica industriale, basata sul confronto tra la politica, i tecnici e le forze sociali: non di finti annunci”. Secondo Vacchi le opposizioni al progetto dell’Eni sono “ideologiche”. “Bisogna eliminare i gas nocivi per il clima: ma nella transizione servono diversi combustibili, e il metano resta quello trainante”. Il dirigente sindacale osserva che l’industria dell’energia nel ravennate occupa circa seimila persone, tra addetti diretti e indiretti, ma continua a perdere posti di lavoro: “Il progetto di cattura e stoccaggio permetterebbe di salvare l’occupazione attuale”.
Quanti posti di lavoro garantisce un progetto di “cattura e stoccaggio” però è difficile dire. “Sappiamo che l’intensità di occupazione nelle energie rinnovabili è alta”, osserva Alberto Bellini: “Mentre le prospettive offerte da un Ccs non sono chiare”.
Investimenti e lavoro non sono problema da poco, anche in una regione benestante e attiva come l’Emilia-Romagna. “Abbiamo un sistema economico che si stava fermando già prima della pandemia”, osserva Marinella Melandri, segretaria della Cgil di Ravenna, dove l’ho incontrata in febbraio. “Speriamo che il Piano di rilancio e resilienza sia un’opportunità per riconvertire l’economia in senso sostenibile per l’ambiente”. La Cgil condivide l’obiettivo di ridurre i gas che alterano il clima, spiega Melandri, ma “una transizione giusta deve tenere conto degli effetti economici e sociali”, quindi salvaguardare il lavoro.
Di recente il sindacato ha firmato un Patto regionale per l’occupazione e l’ambiente, con altre forze sociali, e qui ha avviato un dialogo con gli altri firmatari, tra cui Legambiente. La dirigente sindacale è cauta. “La chimica e l’energia hanno avuto un ruolo di primo piano in questa città. La presenza dell’Eni ha contribuito a creare grandi professionalità. Ora i combustibili fossili sono destinati a progressiva dismissione, anche se il metano può ancora avere un ruolo nella transizione”.
Un passato che non passa mai
La Cgil è aperta al dialogo. Sul nuovo impianto proposto dall’Eni però Marinella Melandri non si pronuncia: “Non è ancora stato approfondito in modo adeguato”, afferma: “Se ne parla, ma non abbiamo ancora avuto nessun confronto istituzionale”. Teme che il dibattito finisca in “tifoseria politica”, anche in vista delle elezioni amministrative del prossimo autunno.
Una rara occasione di confronto tra le diverse parti in causa è stato un incontro pubblico sulla “transizione ecologica a Ravenna”, organizzato da alcune organizzazioni ambientaliste: con scienziati, tecnici, esponenti dell’industria off shore di Ravenna e del progetto Agnes, dirigenti della Cgil, enti locali. “Avevamo invitato anche l’Eni, che però ha declinato”, dice Viviana Manganaro, portavoce della Rete per l’emergenza climatica e ambientale dell’Emilia-Romagna, che ha coordinato l’evento: “Il nostro obiettivo era mettere in luce tutti gli aspetti del progetto di cattura e stoccaggio perché i cittadini possano farsi un’opinione informata”.
“Siamo a un bivio da cui dipende il nostro futuro”, dice Lorenzo Mancini. Sul progetto di cattura e stoccaggio gravano troppi rischi e incertezze. “Una vera transizione ecologica significa investire da oggi sulle energie rinnovabili, per esempio usare le nostre capacità industriali per l’impianto eolico off shore. Invece vediamo puntare sull’idrogeno blu, quindi sul gas. È un passato che non passa mai”.
Un pomeriggio di febbraio un gruppo di giovani raggiunge una piazza centrale di Ravenna. Dal rimorchio di una bicicletta scaricano un altoparlante e dei cartelli scritti a mano, che distendono sul selciato: dicono “No al Ccs dell’Eni”, “il futuro non si Stocca”. Due ragazze si alternano al microfono rivolte ai passanti: “Finanziare il progetto dell’Eni vuol dire togliere fondi alle energie rinnovabili”.
Anna Fedriga, studente del primo anno alla facoltà di filosofia di Bologna, è tra i promotori del gruppo ravennate di Fridays for future, il movimento ispirato alla svedese Greta Thunberg; i primi “scioperi per il clima” a Ravenna avevano riempito il centro storico, prima della pandemia. Questo movimento di giovanissimi è corteggiato da dirigenti politici e governanti di tutto il mondo, e la città romagnola non fa eccezione. “Ci invitano a testimoniare, tutti felici di farsi fotografare con noi. Magari finanziano le borracce per le scuole, che non costa nulla. Ma quando si tratta di decidere sulle cose che contano, non ci ascoltano più”. Per Anna Fedriga “il petrolchimico e il gas sono il passato che continua a incombere su questa città. Noi vogliamo pensare al futuro”. Bisognerà ascoltare anche le loro voci.
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