L’ultima volta che Ibtisam Aziz ha visto suo marito Ahmed è stata nel 1980. Aveva 23 anni e due figli piccoli. Ahmed uscì per fare la spesa a Baghdad, la capitale irachena, dove abitavano. Non rientrò più. Una sola cosa era cambiata da quando si erano sposati: nel 1979 il generale Saddam Hussein aveva preso il potere. Ibtisam capì subito che la scomparsa di Ahmed aveva a che fare con il nuovo regime. Ma sono dovuti passare ventitré anni affinché diventasse ufficialmente una vedova. Nel 2003, con la caduta del regime di Saddam seguita all’invasione a guida statunitense, ha potuto finalmente cominciare a cercarlo.

Ci sono parole che pesano come macigni sulla vita delle persone e ce n’è una in particolare che perseguita le famiglie irachene da oltre quarant’anni: mafqud, al plurale mafqudin, ovvero dispersi, scomparsi. Del marito di Aziz, come di centinaia di migliaia di altri iracheni, non si sono avute notizie per anni o non se ne hanno tuttora. Il numero delle persone scomparse, decennio dopo decennio è continuato ad aumentare, fino alle recenti sparizioni avvenute durante l’occupazione del gruppo Stato islamico (Is), la guerra per liberare i territori occupati dall’Is e infine le proteste dell’ottobre 2019, in seguito alle quali decine di attivisti sono stati rapiti, alcuni uccisi. Neanche del loro destino, spesso, si sa qualcosa.

Mentre Aziz si divide tra un appuntamento e l’altro per conto del dipartimento di empowerment delle donne istituito dal governo iracheno, di cui in passato è stata direttrice generale, Aisha serve un tè agli ospiti nel salone di casa sua, nella regione del Sinjar, nel nord dell’Iraq. Sono i ricercatori del dipartimento di medicina legale di Baghdad. Con la posa elegante che l’altezza le dona, tiene in mano un largo vassoio in alluminio: non cade nemmeno una goccia di tè, nonostante i bicchieri siano pieni fino all’orlo. Quando la figlia Jihan le si attacca alle gambe, Aisha non vacilla. Ma la forza delle braccia e i gesti gentili che compie contrastano con la tristezza dei suoi occhi. La foto del suo profilo WhatsApp ritrae un uomo con dei baffi lunghi, una fronte larga, la pelle bianca e lo sguardo serio.

“È mio marito Adheeb”, dice. “Mafqud”.

Senza traccia
Aisha è una delle settemila yazide rapite e vendute come schiave dall’Is nell’agosto del 2014. Le Nazioni Unite lo hanno definito come un genocidio, il 74° nella storia yazida. Il destino di quasi metà di queste donne è ancora sconosciuto. “Non posso esserne certa, ma credo che mio marito sia stato ucciso”, dice tenendo in mano il telefono, seduta sul materasso a terra nella sua modesta casa. La piccola Jihan resta sempre accanto a lei, stringendole le braccia. Migliaia di uomini (tra settemila e cinquemila a seconda delle fonti) sono stati uccisi e i loro cadaveri sono ancora nei campi del Sinjar, nelle 67 fosse comuni individuate dopo che la provincia di Ninive, nell’Iraq nordoccidentale, è stata liberata dal gruppo estremista nel 2017.

I ricercatori sono andati a dire ad Aisha che Adheeb, padre delle sue figlie Jamila, Jinan e Jihan, è considerato una persona dispersa. Si stima che dagli anni ottanta a oggi in Iraq le persone scomparse siano da un minimo di 250mila a un massimo di un milione, probabilmente il più alto numero in un singolo paese in tutto il mondo. Quarant’anni di mafqudin, facendo partire il conto dalla guerra tra Iraq e Iran durata dal 1980 al 1988. “Anche il numero minimo stimato, 250mila, è enorme”, afferma Fawwaz Abdulameer, vicecapo missione della Commissione internazionale per le persone scomparse (Icmp) in Iraq.

Aisha con le figlie Jinan e Jihan, a Sinjar, 21 marzo 2019. (Alessio Mamo)

Saddam Hussein aveva cominciato ad arrestare gli oppositori politici già prima della guerra contro l’Iran, ma dopo la fine del conflitto la catena sembra infinita: il genocidio contro il popolo curdo durante la campagna Anfal e l’attacco chimico a Halabja nel 1988; i massacri degli sciiti nel sud negli anni novanta; la prima guerra del Golfo in Kuwait tra il 1990 e il 1991; fino alla seconda guerra del Golfo, con l’invasione statunitense del 2003 e l’insurrezione di Al Qaeda; la guerra civile tra il 2006 e il 2008 ; e i massacri dell’Is tra il 2014 e il 2017 . La diversa natura dei conflitti ha alimentato le divisioni confessionali e le famiglie delle vittime non hanno combattuto insieme per la ricerca dei propri cari. Il loro atteggiamento ricalca quello dello stato: a oggi, non esiste un registro nazionale per le persone scomparse né un processo centralizzato. “Per denunciare la scomparsa di una persona, i familiari devono rivolgersi a una serie di istituzioni diverse, che variano se si vive nell’Iraq federale o nella regione del Kurdistan. Il processo diventa più complicato se un componente della famiglia è sfollato da un’area all’altra. Navigare nel sistema diventa spesso proibitivo”, spiega Carrie Corner dell’Icmp.

Aisha ricorda il momento in cui ha visto il marito per l’ultima volta, nel 2014. Per alcuni anni non ha avuto notizie delle figlie, rapite insieme a lei. A un certo punto si è ammalata, tanto da non essere più utile ai sequestratori. “Il solo pensiero di non sapere dove fossero le bambine mi faceva svenire di continuo”. A quel punto il padre di Aisha ha proposto ai miliziani di “ricomprarla” per farla tornare a casa. Sono dovuti passare altri anni affinché tornassero due figlie, le più piccole. Nel gennaio del 2018 Jinan è stata liberata dalle forze curde dell’Unità di protezione popolare (Ypg) in Siria, mentre Jihan è stata ritrovata in un orfanotrofio di Mosul. Ma la primogenita Jamila non era con loro. “Quando me l’hanno portata via, piangeva senza sosta”, ripete Aisha. “E io non potevo fare nulla per proteggerla”.

Quando tutte le fosse comuni del Sinjar saranno aperte e le persone sepolte saranno identificate, probabilmente Aisha diventerà ufficialmente vedova

La prima fossa comune in Sinjar è stata aperta il 15 marzo 2019, con la supervisione della squadra investigativa dell’Onu che ha supportato le indagini e il lavoro forense della squadra di Baghdad. Gli scavi in Sinjar, come in altre zone del paese, si ripetono con più missioni all’anno. L’ultima è cominciata nel giugno del 2022. Quando tutte le fosse comuni del Sinjar saranno aperte e le persone sepolte saranno identificate, probabilmente Aisha diventerà ufficialmente vedova. Ma il processo è ancora lungo. “Almeno due anni”, ha dichiarato il dottor Zaid al Yusif del dipartimento di medicina legale, riferendosi solo al Sinjar.

Negli anni ottanta Ibtisam Aziz non aveva ricevuto nessuna visita a casa né qualcuno aveva mai ipotizzato delle date.

“Un giorno, intorno al 1982, seppi per caso da un impiegato del ministero delle finanze che c’era una lista di persone che avevano subìto un’esecuzione. Il nome di mio marito era tra loro. Provai a comunicare a sua madre l’idea che forse era stato ucciso. La sua reazione fu molto dura: mi urlò contro dicendo che era come se lo volessi già morto”. Pochi anni dopo, Aziz fu arrestata. Accusata di aver curato dei disertori dell’esercito iracheno che non volevano combattere nella guerra tra Iraq e Iran, si difese dicendo di averlo fatto per motivi umanitari. Trascorse tre anni nelle prigioni di Saddam, e fu liberata solo grazie all’amnistia concessa alla fine della guerra. “All’epoca era difficile perfino chiedere un certificato di nascita, come potevo cercare mio marito? Ero terrorizzata. Mia sorella ha passato in prigione dieci anni della sua vita, avevo due figli piccoli. Non potevo fare di più”. Fino al 2003.

Al cimitero di Mohammad Sakran, sulla strada che porta da Baghdad a Diyala, il guardiano le disse: “È una perdita di tempo cercare tuo marito​​”. Ogni settimana, per più di vent’anni, aveva visto centinaia di cadaveri gettati in fosse comuni. La indirizzò all’ospedale militare Rasheed. Una volta in ospedale, fornì il nome del marito: Ahmed Saheb Ali, nato a Baghdad nel 1950. Scomparso dal 1980. Alla fine ebbe il suo certificato di morte: 27 agosto 1982, questa è la data. Motivo della morte: esecuzione per impiccagione. Niente vestiti, niente corpo, niente resti. Solo un pezzo di carta degli ufficiali di Saddam.

Ricostruire la società
All’epoca in cui Aziz ebbe la conferma della morte del marito, il dipartimento di medicina legale di Baghdad non era ancora attrezzato per raccogliere i test del dna di migliaia di famiglie e la Fondazione dei martiri non era ancora attiva per cercare gli scomparsi dell’ex regime. Solo nel 2008, Dhiaa Kareem ha cominciato a lavorare alla sua prima fossa comune.

“Ho lavorato ai crimini del partito Baath, di Al Qaeda, dell’Is. Abbiamo scavato le tombe delle guerre dell’Iran e del Kuwait. Abbiamo cercato i cadaveri della campagna Anfal in Kurdistan”, spiega Kareem, oggi direttore della Fondazione dei martiri. “Ma l’archeologia forense è solo una parte del lavoro. Il nostro ruolo è anche quello di relazionarci con le famiglie dei dispersi. Ora si fidano di noi”.

La Fondazione lavora fianco a fianco con il dipartimento di medicina legale del ministero della salute per gli scavi, le esumazioni e il processo di identificazione dei resti dei corpi, seguendo tutte le procedure legali previste dalla legge sulle fosse comuni. “Prima di cominciare le procedure per il Sinjar, dobbiamo chiudere alcuni casi del Kuwait, risalenti al 1991”, dice il medico Ali Hisham, antropologo forense del dipartimento. Le dimensioni del magazzino testimoniano la portata del problema: centinaia di scatole bianche contrassegnate con un codice. “Lettere che indicano il luogo, il numero del caso, i resti del corpo e i vestiti”, spiega. “L’obiettivo è consegnare i resti alle famiglie, in modo che il magazzino sia svuotato e riempito di nuovo con i casi del Sinjar”.

Il lavoro prevede campagne di raccolta del dna dei parenti. “Ogni fossa comune è diversa. Per quelle in Sinjar, abbiamo meno campioni provenienti dai parenti. Per il massacro di Speicher, il più grande compiuto dall’Is, durato un giorno intero, avevamo un numero di campioni di dna sette volte superiore al numero delle vittime”, spiega il dottor Zaid al Yousif, capo del dipartimento. “Inoltre, le fosse comuni differiscono per livelli e distribuzione dei corpi, le ossa di una stessa persona possono essere disperse in più punti della fossa. Lavoriamo su casi degli anni ottanta senza avere testimonianze dirette”.

Dopo l’esame del corpo da parte dell’équipe antropologica, le informazioni devono corrispondere a quelle del database con i file dei parenti. “Abbiamo un approccio multidisciplinare”, spiega Luis Funderbrider, antropologo forense argentino, uno dei massimi esperti mondiali, che negli ultimi trent’anni ha lavorato in Argentina, in Guatemala e in Bosnia sulle persone scomparse. La prima volta che andò in Iraq era il 1992.

Anche se è complicato ed eccessivamente burocratico, Aziz non ha avuto accesso nemmeno a un sistema di questo tipo. Il lavoro di ricerca è cominciato dopo il 2003, e c’è ancora molta strada da fare. Dalla sua esperienza ha maturato la decisione di dedicare la vita alle donne. In fin dei conti, è anche una questione di genere: dato che nella maggior parte dei casi le persone scomparse in Iraq sono uomini, un altissimo numero di donne ne paga le conseguenze.

Come Ibtisam Aziz, come Aisha.

“Sono ancora forte”, dice Aziz. “Ora cerco di aiutare”. In qualità di direttrice del dipartimento di empowerment delle donne, Ibtisam si è occupata anche delle mogli dei jihadisti dell’Is. “Anche i loro mariti sono mafqudin, e fanno parte della nostra società”. Allo stesso tempo, ha contribuito a costruire degli spazi sicuri per le vittime yazide tornate dalla Siria dopo anni di schiavitù, cercando di metterle in contatto con le famiglie.

Così è stato con le figlie più piccole di Aisha, Jinan e Jihan.

Un giorno è toccato ad Aziz fare una telefonata importante. Quando chiama Aisha su WhatsApp le appare la foto del profilo, quella del marito con i baffi lunghi . “Ho una buona notizia”, le dice. Sua figlia maggiore Jamila è viva. Dopo oltre cinque anni passati nelle mani dell’Is. Cinque anni in cui è stata mafqude, come si declina al femminile. Cinque anni di attesa e speranza.

“Tornerà presto a casa”, conclude.

Questo articolo fa parte di un progetto realizzato dalla giornalista Marta Bellingreri e dal fotografo Alessio Mamo, che hanno seguito la squadra di medicina legale che lavora per trovare i resti nelle fosse comuni irachene. Un portfolio è stato pubblicato il 7 luglio 2022 sul numero 1468 di Internazionale.

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