L’estate filtra nella foresta del Cansiglio dalle cime dei grandi faggi ombrosi. La terra è umida e l’aria è fresca, profuma d’autunno. Il bosco è ricoperto da un letto di foglie secche e costellato dal verde delle felci. È luglio, ma le stagioni sembrano fondersi l’una con l’altra. La foresta, composta anche dall’abete rosso, circonda l’omonimo altopiano nelle Prealpi bellunesi, a mille metri d’altitudine, tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone. Qui arrivano i picchi a fare il nido, vivono i cervi, i daini, i caprioli e i ghiri. Da un anno sono tornati anche i lupi. Ma un’intera comunità sta scomparendo.
La prova più evidente è Vallorch, che significa la “valle profonda” ed il più antico villaggio dei cimbri del Cansiglio. Vi si arriva percorrendo una piccola stradina e lo spettacolo che ci si trova davanti è quello di un villaggio fantasma. La prima abitazione è incastonata proprio tra due faggi. L’architettura è quella che connota tutte le altre costruzioni: un piano; tetto spiovente e fatto di scandole; staccionate, finestre e balconi colorati. In tutto, nel cuore di Vallorch ci sono dieci case del genere. Su alcune ci sono delle insegne, altre hanno delle sculture in legno nel giardino, appese agli alberi, e poi gli scuri e dei gradini per salire fino alla porta d’ingresso.
Tutte sono disabitate. Anche l’ultimo residente ha dovuto lasciare la sua baita ai margini del bosco. Qui ha vissuto da solo per vent’anni, senza riscaldamento e acqua calda, negli inverni gelidi e nelle fresche estati. Lo chiamano “il poeta del bosco”. Un giorno ha deciso che era arrivato il momento di stabilirsi giù a valle e lasciare la casa di legno degli antenati. Aveva superato gli ottant’anni e si sentiva solo.
Il poeta
Lo incontro a inizio luglio. Si chiama Franco Azzalini, ha 84 anni e vive nella casa di riposo di Fregona, in provincia di Treviso, a mezz’ora di strada da Vallorch. Mi accoglie con un sorriso, indossa un cappellino con il frontino e un paio di occhiali con le lenti riflettenti blu. “Sono qui da due anni”, dice, quasi sussurrando.
Di solito, nei fine settimana, lo riaccompagnavano nella casa nella foresta ma a causa della pandemia di covid-19 non lo fanno andare per paura che si ammali. Parla sottovoce, come se fossimo nel bosco. Come mai a un certo punto della sua vita è andato a vivere nella foresta? “E dove andavo? Mi ero separato e sono andato a vivere nel casone della mia famiglia a Vallorch”. Era il 1994. “Sono stato lassù da solo per ventiquattro anni”, racconta. Franco Azzalini è nato e cresciuto a Vallorch, aveva fatto il boscaiolo con il padre e poi partì, a vent’anni, quando era entrato a fare parte della squadra di sci di fondo delle fiamme gialle. È ritornato a vivere a Vallorch quando aveva 58 anni ed era in pensione.
“Non c’era il telefono, né la luce elettrica, usavo una lampada a petrolio”, ricorda. “In inverno nevicava e nevicava, bevevo mezzo bicchiere di vino rosso e mi mettevo sotto le coperte. Mi svegliavo anche due o tre volte la notte a buttar giù neve dal tetto perché avevo paura che mi crollasse addosso mentre dormivo. Al mattino, però, aprivo il balcone e vedevo il bianco candido della neve e l’azzurro sconfinato del cielo”.
Per anni ha vissuto così. “Ho trascorso dieci inverni da solo”, dice. “Poi ho deciso di venire giù a Fregona nei mesi freddi. D’inverno non c’era mai nessuno, d’estate invece qualcuno si vedeva. Quando cadono le foglie e i funghi finiscono, e tutti se ne vanno, allora nel silenzio della sera i cervi si spingono sui prati”.
C’è un’espressione che usa a un certo punto Azzalini: “Portava malinconia rimanere solo”. La lettura è diventata un rimedio. “A star lassù, nelle lunghe sere, leggevo e leggevo. Mi piacevano i classici, soprattutto Omero e i poeti latini, in particolare Ovidio e Quintiliano. A un certo punto ho cominciato a scrivere anch’io”. Nella sua casa nel bosco Azzalini ha scritto la raccolta di racconti Un bosco da fiaba e quella di poesie in quartine la Biografia del bosco.
Gli chiedo se gli manca la foresta. “E si capisce che mi manca. Il bosco d’inverno è silenzioso, gli alberi sono spogli e si sentono solo i caprioli. Mentre quando gli abeti sono più frondosi, se spira il vento, senti i rumori dei ghiri e degli scoiattoli. In primavera, senti battere sul tronco del faggio il picchio nero che costruisce il nido. Sono questi i suoni della foresta del Cansiglio. Anche il più piccolo rumore si sente subito”.
Un popolo che sta scomparendo
Franco Azzalini è diretto discendente di Domenico Azzalini, il fondatore di Vallorch, il primo villaggio costruito nel Cansiglio nel 1799. La famiglia degli Azzalini partì da uno dei sette comuni cimbri dell’altopiano di Asiago. Camminarono una settimana, “con asce, scuri, coltelli a due manici, sgorbie, pialle, seghe”, scrive Mario Rigoni Stern – originario di Asiago – nel racconto Le quattro stagioni del Cansiglio, contenuto nel libro fotografico Cansiglio. Il bosco dei dogi di Fulvio Roiter.
Al settimo giorno erano dentro la foresta dove con occhio esperto gli anziani artigiani guardarono ammirati i grandi abeti e i maestosi faggi da dove con abile mano avrebbero ricavato gli oggetti per rendere più facile il vivere della gente. Edificarono le loro abitazioni sovrapponendo tronchi squadrati con l’ascia, coprivano l’intelaiatura del tetto con le scandole, con la pietra costruirono i focolari
Questa storia, come le altre sui cimbri e sulle loro tradizioni, sono raccontate nei documenti e nei vari materiali conservati nel centro etnografico di cultura cimbra a Pian dell’Osteria, uno degli otto villaggi cimbri del Cansiglio - Le Rotte, Pian Canaie, Campon, Pich, Val Bona e Pian dei lovi (lupi) - fondati dopo Vallorch.
“Gruss dich (Ciao)”. Francesco Azzalini, cognato di Franco e segretario dell’associazione Cimbri del Cansiglio, saluta nella sua lingua. “Sono uno dei pochi che sa ancora parlare il cimbro”, racconta, “perché sono andato a scuola all’istituto di cultura cimbra di Asiago”.
Insieme al popolo anche la lingua sta scomparendo. “In veneto siamo rimasti circa in seicento”, dice Francesco Azzalini, “e solo pochi di noi parlano ancora il cimbro. Ricordare una parola, un proverbio, una leggenda, un’usanza, o imparare un vecchio mestiere: qualsiasi cosa, anche piccola, significa dare un futuro al nostro passato”.
I primi cimbri migrarono nell’altopiano di Asiago dopo l’anno mille. Arrivavano dall’area bavarese e dal Sud Tirolo, dalle regioni dei fiumi Inn e Lech. “Erano mastri falegnami e abili boscaioli, scatoleri (fabbricanti di scatole) e tamisari (fabbricanti di setacci)”, spiega Franco Bastianon, consigliere dell’associazione, e “gran maestro cimbro”, aggiunge.
I cimbri sparsi per diverse province e regioni tornano a Vallorch e negli altri villaggi nei mesi estivi, sistemano le case di legno e vi trascorrono le vacanze. Riaprono anche le vecchie osterie e cercano di conservare le tradizioni degli antenati. Lo fanno con l’aiuto dell’associazione, che si occupa di salvaguardare i villaggi, sistemare le strade dissestate e recuperare i vecchi insediamenti.
Scrive Mario Rigoni Stern: “Le selve, oggi, sono più che mai indispensabili all’esistenza della Terra. Ai nostri nipoti dobbiamo lasciare un Cansiglio più bello ancora di questo”. I cimbri continuano a preservare le antiche tradizioni e la natura selvaggia del bosco. “Tanto che qui, in Val Menera”, conferma Francesco Azzalini, “sono ritornati anche i lupi”.
Le foto di Fulvio Roiter sono state gentilmente concesse dalla Fondazione Fulvio Roiter.
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