I container occupano la banchina in tutta la sua lunghezza. Sono 212, impilati a tre a tre, ben visibili dal lungomare e dalla medina che domina la città. Bloccati da più di otto mesi nel porto di Sousse, questi parallelepipedi di ferro arrivati dall’Italia sono al centro di un gigantesco scandalo ambientale, che ha travolto importanti esponenti politici in Tunisia, messo in luce un traffico di rifiuti milionario tra le due sponde del Mediterraneo e svelato il modo in cui la Campania ha deciso di risolvere la sua cronica emergenza rifiuti.

I container sono una presenza ingombrante di fronte alla passeggiata che corre lungo il mare di questa città costiera a 140 chilometri da Tunisi. Le gru spostano i nuovi carichi arrivati con le navi, cercando di trovare uno spazio libero dove metterli. Gruppi di persone con le canne da pesca in mano chiacchierano tra loro, osservando da lontano una scena a cui sembrano ormai abituati. I non addetti ai lavori non possono accedere alla banchina, meno che mai i giornalisti. Ma sul piazzale di fronte all’ingresso del porto la rabbia è palpabile. Sotto uno striscione con un pugno chiuso e la scritta in arabo “Insieme per rimandare indietro i container di rifiuti provenienti dall’Italia”, una tenda da campeggio è la base operativa del presidio di protesta.

Gli attivisti, che stanno qui giorno e notte, affermano che non se ne andranno finché la questione non sarà risolta una volta per tutte. Manifesti in più lingue indicano le loro richieste: “Fate uscire l’immondizia italiana dal mio paese”, dice uno. “Non accetteremo i rifiuti italiani”, ribadisce una scritta a caratteri cubitali. “L’Italia ha cercato di usare la Tunisia come una discarica. I container bloccati qui da mesi rappresentano un grave rischio ambientale e il nostro governo non sta facendo nulla contro questa catastrofe ecologica”, s’indigna Hamdi Bensalah, uno dei principali animatori del sit-in.

Denunciati alla dogana di Sousse come rifiuti plastici, i container in realtà conterrebbero gli scarti della raccolta differenziata domestica prodotta da sedici comuni del Cilento. Sono stati mandati in Tunisia grazie a un accordo tra la Sviluppo risorse ambientali (Sra), un’azienda con sede a Polla, nel basso salernitano, e la tunisina Soreplast. Le due imprese hanno stipulato un contratto per l’invio di 120mila tonnellate di rifiuti “non pericolosi” in Tunisia. Prezzo pattuito: 48 euro a tonnellata, per un totale di 5,7 milioni. Il contratto è stato siglato alla fine di settembre del 2019 e suggellato da una visita reciproca dei titolari delle due ditte, il salernitano Alfonso Palmieri e il tunisino Mohamed Moncef Noureddine, ai rispettivi impianti di Sousse e di Polla.

Una volta ottenute dalla regione Campania le autorizzazioni per l’invio dei materiali, il 22 maggio 2020 è partito il primo carico: settanta container imbarcati al porto di Salerno su una nave battente bandiera turca, la Martine A della Arkas Container Transport, sbarcati in Tunisia pochi giorni dopo e trasportati in un deposito della Soreplast a Moureddine, un piccolo comune a una decina di chilometri da Sousse. A luglio erano già arrivati altri tre carichi, per un totale di 7.900 tonnellate di spazzatura.

A quel punto, qualcuno alle dogane tunisine si è insospettito e ha aperto i container, scoprendo che all’interno non c’erano solo rifiuti plastici. È scattato il sequestro giudiziario e i container si sono accumulati sulla banchina del porto tunisino, dove sono parcheggiati al costo di 26mila euro al giorno. In otto mesi, si è arrivati a un debito di quasi sette milioni di euro. Su chi pagherà una cifra destinata a lievitare e sul destino dell’immondizia campana è scoppiato un contenzioso che vede coinvolti la Sra, la regione Campania e il governo tunisino.

Hamdi Chebaâne è uno dei pochi in Tunisia ad aver visto con i propri occhi cosa c’è dentro quei container. Membro di Tunisie verte, una coalizione di associazioni ambientaliste, nonché esperto di valorizzazione dei rifiuti, è stato tra i primi a denunciare gli arrivi delle navi cariche di spazzatura. Fin dal luglio del 2020, insieme ad altri attivisti ha cercato di attirare l’attenzione su quello che definisce “il più grande scandalo ambientale internazionale mai accaduto in Tunisia”.

All’inizio, del caso si è interessata la stampa locale. Poi, a novembre del 2020, è stata la popolare trasmissione tv Les 4 vérités, dell’emittente privata nazionale El Hiwar el Tounsi, a scoperchiare definitivamente il vaso di Pandora con un lungo reportage. Pochi giorni dopo la messa in onda, il parlamento tunisino ha deciso di inviare una commissione d’inchiesta a Sousse. Era il 19 novembre 2020 quando, alla presenza dei componenti della commissione e di esperti, tra cui Chebaâne, sono stati aperti alcuni dei container bloccati al porto.

“All’interno abbiamo trovato di tutto: pannolini, scarpe, pezzi di cartone, para-urti di automobili, giochi per bambini. Erano chiaramente rifiuti domestici non valorizzabili e difficilmente riciclabili”. Per avvalorare la sua denuncia, l’attivista mostra sul telefono una serie di foto. Dalle immagini si vede una massa indistinta di spazzatura, in cui il materiale plastico che la Soreplast avrebbe dovuto trasformare e riesportare come prodotto finito appare tutt’altro che prevalente. “È chiaro che il piano era bruciare il contenuto o gettarlo in discarica”, conclude Chebaâne.

Consegne inattese
Com’è stato possibile che l’immondizia di sedici comuni del Cilento sia stata spedita su una nave in Tunisia, un paese che ha già difficoltà a gestire la propria spazzatura? Chi ha dato le autorizzazioni? “Questi 282 container sono arrivati qui da noi senza che ne sapessimo nulla”, dice Hédi Chebili, direttore generale al ministero dell’ambiente. Al dicastero, un palazzo modernista alla Cité el Khadra, una zona residenziale a nord di Tunisi, sembrano cadere letteralmente dalle nuvole. “Mentre il mondo era impegnato ad affrontare la crisi del covid-19, sono piombati qui questi rifiuti, mandati dall’Italia senza alcun rispetto delle procedure né delle convenzioni internazionali”, prosegue il funzionario.

In effetti, la convenzione di Bamako del 1991 vieta l’importazione in Africa di scarti pericolosi, mentre quella di Basilea del 1989 per la regolamentazione dei movimenti transfrontalieri di rifiuti e il regolamento europeo 1013 del 2006 ne autorizzano l’esportazione verso un paese terzo solo se è in grado di riceverli e ha una fabbrica che possa procedere al loro riciclaggio. Secondo queste normative, i container non sarebbero mai dovuti partire, sia perché i rifiuti classificati con il codice Y46 della convenzione di Basilea sono considerati “pericolosi” sia perché la Soreplast non dispone di impianti di riciclaggio. La convenzione di Basilea impone che ogni invio di rifiuti tra paesi debba essere approvato mediante un contatto tra i focal point (i rappresentanti dell’accordo internazionale) istituiti presso i ministeri dell’ambiente dei due stati. Questo contatto però non sarebbe mai avvenuto. A sentire Chebili, il focal point in Tunisia ha saputo dell’invio dopo che i container erano arrivati. “Siamo stati informati solo a luglio del 2020, a cose fatte”, dice il funzionario. Che aggiunge: “Ci sono stati diversi errori nelle procedure. Ora la vicenda è in mano alla magistratura”.

Dopo che lo scandalo è esploso, la procura di Sousse ha aperto un’inchiesta. Il 22 dicembre 2020, dodici persone sono state arrestate e altrettante indagate. In carcere sono finiti il ministro dell’ambiente Mustapha Laroui, che solo il giorno prima era stato destituito dal suo incarico, il suo capo di gabinetto, dirigenti dell’autorità doganale, dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (Anpe) e dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (Anged). L’amministratore unico della Soreplast, Mohamed Moncef Noureddine, è irreperibile da allora. A quel punto la regione Campania ha bloccato le spedizioni, ha chiesto alla Sra di riportare i container in Italia e ha denunciato la vicenda alla procura della repubblica di Salerno.

La prima volta
I documenti emersi dai vari scambi tra la Sra e la Soreplast, le interviste con alcuni dei principali protagonisti in Italia e in Tunisia, lo studio delle movimentazioni dei carichi ci hanno permesso di ricostruire le principali tappe di questo traffico transnazionale di rifiuti. Quello che emerge è un reticolo fitto di abusi, dichiarazioni false, permessi accordati da enti non autorizzati a rilasciarli, violazioni delle procedure sia in Tunisia sia in Italia. “Questa storia mostra che ci sono grandi lobby corrotte interessate a trasformare la Tunisia in una discarica di rifiuti europei”, dice Chebaâne.

Se è la prima volta che uno scandalo di queste dimensioni scuote il paese nordafricano, secondo l’attivista sono anni che il ministero dell’ambiente subisce pressioni da uomini d’affari tunisini influenti per permettere l’importazione di rifiuti. “È stato un tentativo di aprire un commercio redditizio. Per fortuna, la società civile di Sousse ha vigilato e impedito che si consumasse un tale scempio. Se non ci fosse stata la mobilitazione, probabilmente i container sarebbero passati e il loro contenuto sarebbe stato sversato in discarica di nascosto”.

Gli arresti e i fermi indicano che nella rete sarebbero coinvolti alti dirigenti politici tunisini, oltre che responsabili a vari livelli delle autorità doganali e di diverse agenzie pubbliche. Tutti puntano il dito contro quello che è ritenuto il protagonista della truffa: Mohamed Moncef Noureddine, l’amministratore unico della Soreplast. Appartiene a una famiglia influente di Sousse, molto ben inserita nelle cerchie di potere fin dai tempi della dittatura di Zine el Abidine Ben Ali, secondo quanto racconta Chebaâne che lo conosce personalmente da almeno quindici anni.

La raccolta dei rifiuti nella medina di Tunisi, 15 marzo 2021. (Francesco Bellina per Internazionale)

Come ha fatto Noureddine a ottenere una commessa che viola le normative internazionali? E cos’è successo tra la chiusura del contratto, l’invio dei container e il loro sequestro? Quali erano i piani della ditta tunisina e cos’è andato storto? La Soreplast ha chiesto un’autorizzazione per importare rifiuti di plastica, procedere al riciclaggio e riesportarli. L’azienda non ha però una storia consolidata in questo campo né gli impianti necessari a questo scopo. Fondata nel 2009, è rimasta inattiva fino al 2019, quando è cominciato l’affare con la Sra. L’ufficio indicato nel contratto ha sede in una stradina senza uscita nella zona industriale di Sidi Abdelhamid, un quartiere nella periferia sud di Sousse. Sul luogo non ci sono segni della presenza dell’azienda né di attività recenti. Chiedendo in giro, un signore sulla sessantina si presenta come il proprietario dell’ufficio. Sostiene che la Soreplast è andata via da diversi anni lasciando scoperto un affitto di 35mila dinari (poco più di diecimila euro): “Sono scappati dalla notte alla mattina, svuotando il locale”.

La scritta Soreplast campeggia invece sul portone di un edificio in aperta campagna, sulla strada che porta al paesino di Moureddine, a una decina di chilometri di distanza. Il palazzo è chiuso, la dogana l’ha messo sotto sequestro. Le porte sono murate. Non ci sono gli infissi, a indicare che è stato costruito di recente e non è stato mai terminato. Dietro c’è un hangar. È lì che sono stoccati settanta container usciti dal porto. Da fuori è impossibile vederli, ma la conferma arriva da un camionista che li ha trasportati da Sousse e, come prova, ha girato un video. Se fosse vero quello che ha dichiarato l’azienda tunisina, l’hangar dovrebbe custodire dei container vuoti, perché il 95 per cento dei rifiuti arrivati dall’Italia e non bloccati al porto – in totale 1.840 tonnellate – sarebbero stati trasformati in tubi di plastica per l’irrigazione, come testimonia un certificato di avvenuto smaltimento recapitato alla Sra.

“Si tratta con ogni evidenza di una dichiarazione falsa. Il trattamento di quell’immondizia non è mai cominciato”, afferma Basma Jebali, direttrice generale dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (Anged), l’ente che controlla le discariche e concede alle aziende le autorizzazioni per lavorare i rifiuti ed eventualmente riciclarli. “La Soreplast ha chiesto nel febbraio 2020 un permesso per trattare e stoccare rifiuti, ma si trattava di rifiuti prodotti in Tunisia”, dice Jebali. L’ex sottosegretaria al ministero dell’ambiente, 45 anni, è stata nominata alla guida dell’Anged nel dicembre 2020, dopo che l’agenzia è stata a sua volta travolta dallo scandalo dei container e il precedente direttore generale è stato allontanato in fretta e furia. Nelle carte che l’azienda italiana ci ha dato risulta che è stato proprio l’ente che dirige Jebali ad autorizzare la Soreplast a importare i rifiuti in Tunisia. In un documento datato 20 febbraio 2020 e inviato alla regione Campania, l’Anged dichiara che “non si oppone al trasporto transfrontaliero di rifiuti” inviati dalla Sra alla Soreplast. “Quell’autorizzazione è stata concessa contro ogni normativa da un funzionario dell’Anged, che ora è in carcere. Purtroppo ci sono state diverse falle nel processo. Tutte le procedure sono state falsificate. È una sorta di mafia dei rifiuti”, aggiunge Jebali.

La versione degli italiani
Quali sono le ramificazioni di questa “mafia dei rifiuti”? Che ruolo hanno le aziende Sra e Soreplast in questa vicenda? Perché la regione Campania, invece di attivare le procedure previste dalla convenzione di Basilea, che prevede il contatto tra focal point nazionali, ha dato un’autorizzazione diretta? Fonti giudiziarie italiane fanno trapelare il sospetto che la Soreplast abbia dichiarato il falso.

L’ipotesi dei magistrati è che sia “un’azienda dormiente”, entrata in attività solo per concludere l’affare con la Sra. Una tesi sostenuta anche dai tunisini. “Aveva ottenuto delle autorizzazioni a trattare rifiuti già nel 2010, ma non le ha usate ed è rimasta inattiva per dieci anni”, conferma Basma Jebali. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, la Soreplast avrebbe avuto appoggi sia alla dogana sia alla sede regionale dell’Anged di Sousse per ottenere il passaggio dei container.

Un’analisi fatta da un laboratorio di Sousse attesta che i rifiuti erano composti al 90 per cento da materiale plastico. Una circostanza smentita da quanto osservato da Chebaâne e da analisi ulteriori disposte dalla procura, tanto che il tecnico del laboratorio oggi è in carcere. L’amministratore unico Mohamed Moncef Noureddine sarebbe nascosto in Germania, dove sembra che abbia buone protezioni. Contattato via WhatsApp, ha preferito non rispondere alle nostre domande.

A sinistra, il direttore generale del ministero dell’ambiente Hédi Chebili, 16 marzo 2021. A destra, Basma Jebali, la direttrice dell’Anged, 16 marzo 2021. (Francesco Bellina per Internazionale)

Alfonso Palmieri, il proprietario della salernitana Sra, racconta che è stato proprio lui a portarlo in visita all’impianto dove sarebbero dovuti finire i rifiuti campani. “Mi sono accertato di persona che esisteva un impianto di selezione ed estrazione dei materiali”, dice. La sua azienda ha garantito la propria affidabilità con due fideiussioni per un totale di 6,7 milioni di euro e ha versato nelle casse della Soreplast 230mila euro per le prime due spedizioni. “Abbiamo pagato anche la seconda, in anticipo, perché Noureddine ci ha spiegato che aveva fatto degli investimenti e assunto delle persone per gestire i nostri rifiuti e per questo era in difficoltà economiche”, spiega l’amministratore unico della Sra, Antonio Cancro.

All’inizio d’autunno del 2020 altri impiegati dell’azienda sono andati a Sousse per verificare, ma “non gli hanno fatto vedere nulla”, hanno raccontato i vertici della Sra in una conferenza stampa convocata la mattina del 6 febbraio 2021 in un hotel della zona industriale di Polla, nell’estremo sud della Campania. “Non ci hanno detto che i container erano sotto sequestro, ma ci hanno spiegato che erano fermi nel porto perché a Sousse c’era stata un’alluvione, e che il problema presto si sarebbe risolto”, prosegue. La Sra si trincera dietro le autorizzazioni e le carte in regola, accusando la regione di aver commesso degli errori e poi di aver scaricato l’azienda. “Siamo stati lasciati soli”, lamenta Palmieri. La regione Campania ha intimato alla Sra di riprendersi i rifiuti. L’azienda invece vorrebbe risolvere la faccenda con un arbitrato internazionale e far smaltire le balle di spazzatura dove si trovano. Secondo i dirigenti quello che è successo dall’altra parte del Mediterraneo è “un problema tunisino”.

Ripercorrendo a ritroso il percorso dei rifiuti campani si finisce nel cuore della seconda area protetta più grande d’Italia: il parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. Ogni mattina decine di camion della Sra lo battono in lungo e in largo per raccogliere i rifiuti dei sedici comuni i cui territori sono compresi in tutto o in parte nel parco e che hanno appaltato all’azienda la cosiddetta “gestione integrata dei rifiuti”, vale a dire dalla raccolta allo smaltimento. Con 150 dipendenti, 500mila euro di capitale sociale e dieci milioni di fatturato all’anno, la Sra è un’azienda di medie dimensioni che vanta buone relazioni con la politica locale. Al taglio del nastro del nuovo stabilimento, il 25 giugno 2017, erano presenti sindaci e amministratori, l’assessore regionale al turismo Corrado Matera e una delegazione della Confindustria di Salerno.

“Qui arriva la spazzatura dei cittadini e di numerose attività commerciali, soprattutto supermercati e centri commerciali”, spiega Ciro Donnarumma, che come responsabile della logistica della Sra ha organizzato i carichi e le spedizioni dei container in Tunisia. Prima di sigillarli, ha scattato 2.500 fotografie per testimoniare che il contenuto corrispondeva a quanto dichiarato. Poi ne ha seguito il viaggio, affidato a quattro diverse compagnie di trasporti, lungo gli 83 chilometri di autostrada Salerno-Reggio Calabria che separano la zona industriale di Polla dal porto di Salerno.

Dall’esterno dello stabilimento la spazzatura non si vede, è solo annunciata da odori a cui chi ci lavora è abituato. Dentro, gli impianti funzionano a pieno regime. Alcuni operai selezionano a mano i rifiuti che passano sui rulli trasportatori, una macchina separa il metallo dall’alluminio, mentre dei selettori ottici fanno altrettanto con la plastica e il tetrapak. La carta è accatastata a parte. Quello che rimane finisce negli scarti di lavorazione. C’è di tutto: piatti di plastica sporchi, bottiglie, immondizia che non sarebbe dovuta finire nei sacchetti della differenziata. Eccoli qui, i rifiuti che prima dello scandalo sarebbero dovuti finire in Tunisia. Potrebbero subire un secondo processo di recupero, ma “il costo di un’ulteriore selezione sarebbe troppo alto rispetto a ciò che si recupera”, spiega Donnarumma. Per questo sono compressi e vanno a formare le gigantesche balle da spedire all’estero. A prima vista, sono molto simili a quelli fotografati dall’attivista Chebaâne al porto di Sousse.

Se la regione Campania non avesse bloccato le spedizioni, sarebbero già in viaggio o arrivati a destinazione. Invece, lamenta Alfonso Palmieri, “siamo stati costretti a cercare di corsa degli impianti italiani che ci hanno chiesto cifre più alte di quelle di mercato”. La Sra manda gli scarti della raccolta differenziata in Bulgaria, Lettonia, Portogallo e Turchia. Era la prima volta che li spediva in Tunisia. Non è l’unica azienda a lavorare in questo modo, è solo uno degli anelli di un sistema di smaltimento che fa capo alla regione.

Al porto di Sousse, il 17 marzo 2021. Sullo sfondo, i container di rifiuti italiani. (Francesco Bellina per Internazionale)

I dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) certificano che la Campania è la regione italiana che esporta più rifiuti all’estero: 184mila tonnellate nel 2019, 142mila delle quali sono residui degli impianti di trattamento meccanico, come quelli che escono dalla Sra di Polla. Si tratta di scelte che, sempre secondo l’Ispra, fanno lievitare il costo pro capite della gestione dei rifiuti rispetto alla media nazionale, da 175 euro all’anno a 203,53 euro. Allo stesso tempo, alimentano l’affare dello smaltimento dell’immondizia, nelle mani di un pugno d’imprese che si dividono una torta da centinaia di milioni di euro. “Ogni anno autorizziamo tra le 40 e le 50 spedizioni come quelle bloccate in Tunisia”, dicono all’ufficio regionale che si occupa di dare il via libera ai viaggi. Ma queste spedizioni stanno facendo aumentare l’insofferenza nei luoghi di arrivo.

In Portogallo, dove è finita una parte delle ecoballe accatastate a Giugliano durante l’emergenza rifiuti del 2007, ci sono state varie proteste nei luoghi di destinazione dei carichi. All’inizio di febbraio del 2020 i muri di Sobrado, nel nord del paese, sono stati tappezzati di manifesti con scritto “Sobrado vuole respirare, chiudi la discarica”. Gli eurodeputati del Bloco de esquerda hanno presentato un’interrogazione alla Commissione europea e il ministro dell’ambiente João Pedro Matos Fernandes ha annunciato più controlli e una stretta sugli arrivi che ha portato alla sospensione, da parte della regione Campania, di un carico in partenza.

Non è neppure la prima volta che interviene la magistratura. Alla fine di gennaio del 2020, nel porto di Varna, in Bulgaria, sono state sequestrate 3.700 tonnellate di rifiuti inviati dall’azienda irpina Dentice Pantaleone alla Blatsiov di Sofia. La spedizione doveva contenere solo plastica e gomma, ma c’erano vetro, tessuti e componenti elettronici. Le autorità bulgare hanno rimandato tutto al porto di Salerno, il governo di Sofia ha sospeso la licenza all’inceneritore che avrebbe dovuto smaltirli e la vicenda ha provocato l’arresto e le dimissioni del ministro dell’ambiente Neno Dimov.

Questione di risparmio
Dopo lo scandalo della terra dei fuochi, che nei primi anni 2000 ha messo in luce un sistema di discariche abusive e di interramento di rifiuti tra la province di Napoli e Caserta, la Campania sembra aver scelto un’altra strategia: esportare all’estero la sua spazzatura per far fronte alla carenza di impianti. Solo per eliminare le piramidi di ecoballe ereditate dagli anni passati, la giunta guidata da Vincenzo De Luca ha usato un finanziamento statale di 500 milioni di euro. Sono quindi nate diverse aziende subappaltatrici, che si sono occupate di trovare uno sbocco a questi rifiuti, spedendoli dov’era più conveniente dal punto di vista economico.

Per anni, la meta principale è stata la Cina. Ma nel 2018 il paese ha deciso di chiudere le frontiere all’immondizia europea e i rifiuti prodotti in Campania hanno finito per inondare tutto il bacino euromediterraneo. Con la spedizione in Tunisia, per la Sra il risparmio rispetto allo smaltimento in Italia si aggirava attorno al 20 per cento, nonostante le spese di spedizione di 70 euro a tonnellata da aggiungere ai 48 euro da pagare alla Soreplast.

Visto il caso tunisino e il precedente bulgaro, è lecito porsi la domanda: quante delle almeno 40 spedizioni all’anno autorizzate dalla regione Campania contengono rifiuti diversi da quelli indicati nei documenti? Quante violano le convenzioni internazionali? Ci sono aziende campane che hanno messo in piedi un sistema di esternalizzazione del trattamento dei rifiuti in paesi dove i controlli sono meno stringenti e si riesce a farli scomparire in modo illecito?

Grazie alla tecnologia la regione potrebbe monitorare in tempo reale tutti i trasporti transfrontalieri e nei tre giorni precedenti la partenza potrebbe inviare gli ispettori dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpac) a verificare che la spedizione sia in regola. Eppure, nonostante i precedenti e la particolarità delle spedizioni, nessuno ha pensato di controllare e analizzare il contenuto dei container partiti da Polla.

‘Questa storia è molto più complessa di quello che appare’, dice un dirigente della regione Campania

“Fanno pochi controlli”, dice la consigliera regionale Maria Muscarà, del Movimento 5 stelle (M5s). La Sra ha fatto da sé: ha fatto analizzare il contenuto dei container a un laboratorio accreditato, l’Ermete di Ercolano, nel napoletano. Dalle analisi non risulta la presenza di sostanze tossiche o rifiuti pericolosi. Ci sono in maggioranza plastiche, e poi carta, cartone, legno, polilaminati, polistirene e spugne.

Rispondendo a un’interrogazione di Muscarà, il 18 gennaio 2021 la regione ha fatto sapere che a mandare i rifiuti in Tunisia non è solo la Sra. Dopo aver riscontrato “profili e aspetti gravi” che sono stati segnalati anche agli inquirenti, gli uffici regionali hanno negato l’autorizzazione a un’altra azienda. Nella stessa risposta si legge che, “per quanto riferibile”, dall’affare dei rifiuti italo-tunisini emergerebbe “l’esistenza di organizzazioni criminose articolate e strutturate, con eventuali presunti collegamenti e ramificazioni negli enti pubblici del paese di destinazione”.

Negli uffici della regione a Napoli confermano che il caso sarebbe nelle mani dei magistrati della procura della repubblica di Salerno. Ma sull’andamento delle indagini, affidate al Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri e alla guardia di finanza, c’è il massimo riserbo.

“Ci dipingono come la solita organizzazione criminale dell’Italia del sud che cerca di sbarcare il lunario inviando rifiuti di ogni genere in Africa, invece non è così”, si difende Antonio Cancro. “Un’azienda che avesse voluto mettere in piedi un traffico illecito di rifiuti non si sarebbe comportata in questo modo, cercando di ottenere tutte le autorizzazioni necessarie e certificando il carico”, aggiunge l’avvocato Francesco Avagliano. Secondo il legale, se la Sra fosse costretta a riprendersi i rifiuti e a pagarne il prezzo, rischierebbe il fallimento, mandando per strada 150 lavoratori e creando un problema sociale di non poco conto.

Negli uffici della direzione distrettuale antimafia di Salerno la Sra – che fino a qualche anno fa si chiamava FondEco ed era di proprietà di Tommaso Palmieri, padre di Alfonso – è conosciuta. Nel 2016 i vertici dell’azienda sono stati rinviati a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita di rifiuti speciali non pericolosi. Nel 2018 Alfonso Palmieri è finito agli arresti domiciliari in un’indagine della procura di Vallo della Lucania su appalti truccati per l’assegnazione del servizio di raccolta dei rifiuti nel comune di San Mauro Cilento. Negli uffici della regione a Napoli lasciano intendere di sapere più di quello che possono dire. “Questa storia è molto più complessa di quello che appare”, è la risposta di un alto dirigente che chiede di non essere citato.

Intanto, i container restano bloccati in una specie di limbo al porto di Sousse. “Siamo fiduciosi che la questione si risolverà di comune intesa con l’Italia, che è un paese amico e un nostro partner imprescindibile”, dice Hédi Chebili negli uffici del ministero dell’ambiente tunisino. Ma non tutti condividono l’atteggiamento attendista del governo di Tunisi: “È sconcertante che l’Italia, sempre così pronta a rimpatriare gli immigrati tunisini che arrivano via mare in Sicilia, non sia riuscita in otto mesi a rimpatriare i propri rifiuti inviati illegalmente in Tunisia”, afferma Majdi Karbai, deputato dell’assemblea nazionale tunisina eletto nella circoscrizione Italia. Al presidio davanti al porto di Sousse la pensano esattamente come lui e non sembrano disposti ad arretrare di un millimetro: “Siamo qui giorno e notte per ribadire una cosa: la Tunisia non è né sarà mai la discarica dell’Italia”.

Questo articolo è uscito sul numero 1403 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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